Note biografiche

Angelo Ciotti

Valeria nasce a Torino il 24 luglio 1931 da Dino Ciotti, operatore tecnico in una grande fabbrica torinese, e da Ernesta Rossi, casalinga. Entrambi erano di origine romagnola, nati rispettivamente a Saludecio e a Morciano di Romagna, in provincia di Rimini. Il padre fu rigidamente educato, con numerosi fratelli, anche in Svizzera tedesca dove la famiglia era emigrata per lavoro e da dove rientrò in patria dopo la morte del primogenito in guerra, sergente pilota pluridecorato. Uno zio materno, Francesco Brici (Santarcangelo di Romagna 1871 – Rimini 1947) fu affermato pittore, e studiò e lavorò a Roma, Bologna e Firenze prima di stabilirsi, vivendo di questa sola attività, a Rimini, dove gli è anche dedicata una via.

Fin da piccola Valeria dimostra spiccata propensione al disegno e al colore, unita a non comune senso compositivo e ordine mentale. Ad esempio, a 7 anni destò la sorpresa dei coinquilini dei piani superiori che poterono ammirare una sua composizione a gessetti, appena regalati dal babbo, sul terrazzo in asfalto del nostro alloggio al primo piano di corso Francia 310 e costituita da 9 grandi riquadri disposti in quadrato regolarissimo occupanti quasi tutta l’area a disposizione di circa 5 x 5 metri; in ogni riquadro era stilizzata una eguale corolla a tre petali di tulipano, ciascuna differenziata dalle altre per il colore proprio e dello sfondo.

Compie gli studi elementari nella vicina scuola Baricco e quelli medi alla scuola Cavour di Torino. Frequenta assiduamente l’oratorio della Parrocchia di Pozzo Strada dove coltiva durature amicizie. Si ostina, diversamente dal desiderio del padre che propendeva per studi volti a sbocchi impiegatizi, a volere frequentare il liceo artistico di Torino, nell’allora unica sede in via Accademia Albertina, dove consegue la maturità artistica nell’estate del 1948. Si iscrive poi, nuovamente in discordanza con il padre, al corso di Scultura dell’Accademia Albertina di Belle Arti, sotto la guida del Prof. Umberto Baglioni, dove consegue l’attestato di «Licenza artistica» con pieni voti nell’estate del 1952. Sono anni di grande entusiasmo, di fervore produttivo, consono al suo carattere impetuoso e volitivo e al fisico forte e tenace, anni in cui Valeria si apre ad un mondo intellettuale libero, senza confini, un po’ scapigliato e irriverente tipico dell’ambiente che frequentava (fra compagni consideravano con ambizione la scultura come la vera e piena arte figurativa dileggiando scherzosamente «quelli di pittura» e ancor più «quelli di decorazione») e di cui ammira con venerazione la collega Carmelina Piccolis, un po’ più grande e più emancipata di lei. Sono anni, come anche i precedenti e poi sempre, in cui coltiva la musica, direi tutta la musica (ma soprattutto Wagner, C_ajkovskij, poi Stravinskij, Dvor_ak, …) per la quale aveva una mente estremamente ricettiva. Era capace infatti di vocalizzare lunghi brani della Tetralogia dopo l’ascolto delle singole opere, ma anche le canzoni e le musiche ascoltate alla radio o al cinema, o di imitare tutti i gesti e le guizzanti contorsioni vocali di Danny Kaye. Era grandemente dotata! Aveva carattere forte ed esuberante, era allegra, di compagnia e sapeva far ridere chiunque con le sue scanzonate espressioni verbali e mimiche.

Questi erano anche tempi di ristrettezze economiche (si studiava in due in famiglia, per volontà assoluta del padre e sacrificio di entrambi i genitori) alle quali Valeria cercava di sopperire, per le sue minute spese, con disegni eseguiti a favore di studenti coetanei degli anni precedenti, meno volonterosi o capaci, ma più benestanti.

Da allieva Valeria partecipa, ricevendo menzioni di merito, alle mostre annuali della Società Promotrice di Belle Arti di Torino (dal 2° anno accademico 1949-’50), alle mostre nazionali delle Accademie di Belle Arti (nel 2° e 3° anno), rispettivamente a Roma e a Napoli, alla «Quadriennale» della Società Promotrice di Belle Arti di Torino nel 1951.

Terminata l’Accademia nel 1952, Valeria ha un duro diverbio col padre che si rifiuta di aiutarla a rimanere in Accademia dove Baglioni l’avrebbe voluta come assistente (in posizione allora inizialmente forse non retribuita) mentre lei, per questo sogno, sarebbe stata disposta a qualsiasi sacrificio. Baglioni stesso, che era ottimo e paterno maestro, chiamò il padre ben due volte per spiegargli il valore dell’allieva e l’opportunità che ella potesse proseguire quella strada che le aveva svelato tante capacità e già dato tanto onore. Ma non ci fu nulla da fare, così che l’interminabile contrasto col padre segnò una nuova dolorosa tappa. Le si acuì pertanto anche un atteggiamento ostile al rapporto con gli uomini, che si manifestava ad esempio con sentenze lapidarie, negative su ogni cosa, che facevano arretrare anche il pretendente meglio intenzionato (e ce ne furono), lei che pur aveva, unitamente al bell’aspetto, un’umanità sensibile e aperta e che aveva avuto i suoi giusti «filarini» giovanili.

Valeria si mette alacremente, per necessità e amore, come sempre, a lavorare. È subito scelta fra diversi aspiranti come collaboratrice dall’antiquario Quaglino (in Piazza San Carlo), uno dei più noti in Torino, dove progetta arredamenti d’epoca per la collocazione di pezzi originali, sia rappresentando prospettive d’insieme, sia anche, talvolta, realizzando il disegno esecutivo per l’ebanista. Sono molto belli questi progetti conservati in fotografia, benché lei disdegnasse di mostrarli ritenendoli solo opere di abilità. Tale servizio prosegue, poi saltuariamente, fino a circa il 1964 quando il titolare cessa l’attività per età avanzata.

Nel contempo aveva superato gli esami di abilitazione all’insegnamento nelle scuole medie e, quindi, insegna disegno con incarichi annuali ad orario completo in varie scuole statali di avviamento professionale e medie dall’anno scolastico 1954-55 all’anno 1963-64 (scuole B. Bobbio di Chieri, Tommaso Doria di Ciriè, Maria Laetitia, T. Valpreda, Giovanni Verga, Cesare Balbo di Torino). Dall’anno 1964-65, a seguito di concorso nazionale, è ordinaria di Educazione artistica presso l’ultima scuola citata ininterrottamente fino alla richiesta di pensionamento, nel 1989, sempre amata dagli allievi (riceveva molte cartoline e talvolta visite, anche dopo anni dalla licenza), da diversi genitori e dai colleghi.

L’attività artistica si era dunque drasticamente interrotta al suo inizio. Valeria, portata ad un mestiere che richiedeva ampi spazi, grandi materiali e completa dedizione, soffocò con violenza, in un sordo rancore, il desiderio di studio e le ambizioni di espressione e realizzazione di se stessa, seppellendo così in una tomba ogni minimo pensiero di ripresa. Col tempo la rabbia si stempera in rammarico e, dopo circa un anno dalla morte dell’amatissima madre, avvenuta in ospedale nel giugno 1963, decide di lasciare la casa del padre. Ed io andai con lei.

Distaccatasi dall’atmosfera precedente, lo stimolo a ricominciare qualche esercizio d’arte riesce a riaffiorare nel suo animo. Così, dopo insistenze, acconsente di frequentare lo studio di una pittrice, di atteggiamenti molto dolci e da me segnalata, situato in Piazza Statuto per imparare quella tecnica che aveva con un po’ di sufficienza trascurata da più giovane. In uno tra i suoi primi quadri di prova, Piazza Statuto del 1965 (sono passati 13 anni da fine Accademia), si vedono appunto i palazzi e le vie di questo luogo di Torino.

Dato il suo bagaglio interiore, il nuovo cammino è rapido e trova subito amatori delle sue opere nonché i primi due acquirenti, rispettivamente della piccola Natura morta con pere (lire 15.000) e di Vaso con limoni. Ma il suo desiderio di apprendere, unito ad equilibrio e maturata umiltà, non la possono fermare a quell’esperienza, e pertanto decide di iscriversi nuovamente all’Accademia Albertina, il luogo di tutti i suoi rimpianti, questa volta a Pittura sotto la guida del Prof. Enrico Paulucci. Ne frequenta i corsi per i regolari quattro anni, a iniziare dal 1967, dedicando tutti i ritagli di tempo dalla scuola e sottraendone inoltre al sonno e alle domeniche. Così, a più di 35 anni si ritrova con i ventenni a frequentare le stesse aule (Pino Mantovani, Mario Gramaglia, Mimmo Gusmano, Marta Concina, Francesco Preverino, Luca Cappellari che, affettuosamente, la chiama zia Valeria…). Lei vi rivive e si sobbarca felicemente le nuove spese per quest’attività, e partecipa anche a ogni convivio dei giovani compagni, con i quali si trova pienamente a suo agio; perché ha dell’immacolato dentro di sé. Oltre alla pittura, sperimenta con immediato successo l’incisione sotto la guida di Calandri, che diventerà caro amico, e, successivamente, dell’assistente Franco Franco, particolarmente da lei ammirato per la raffinatezza delle sue opere.

Diventa subito abile nell’incisione. Del resto, già anni prima, era stata capace di comporre uno straordinario quadro a china con pennino (analogamente a quanto avviene nell’incisione su zinco con punta di acciaio) della enorme dimensione di circa 90 x 150 cm e a tratto finissimo – come nelle sue lastre – che era copia di una litografia del ’700 di Heim (Paesaggio con tempietto). Il quadro era stato promesso, in uno slancio suo tipico, come regalo di nozze a due amici coetanei prossimi sposi, ma impiegò cinque anni a comporlo lavorandovi, per forza, saltuariamente. Cominciò i tratti a china dall’angolo superiore sinistro finendo all’angolo inferiore destro senza un ripensamento o una correzione, non cambiando mai stile: sembrava fatto tutto di un sol getto. Questa era Valeria, anche come carattere. Tra l’altro, era alacre e attiva anche nei ritagli di tempo, ad esempio lavorava a maglia o a uncinetto anche se stava al televisore realizzando splendide maglie per sé, o coperte a riquadri imparate dalla nonna Teresa. Nei lavori meno impegnativi era poi sempre accompagnata in sottofondo dalla musica, dalla quale sapeva trarre ispirazione figurativa (si vede la musica dei guizzi nell’acqua degli acquarelli) e sapeva farla trarre anche ai suoi scolari ai quali, in accordo con l’insegnante di educazione musicale, faceva ascoltare brani classici da tradurre in disegni.

Così, ben presto, partecipa a mostre collettive, nuovamente da «allieva» all’inizio, ottenendo, anche in queste nuove discipline, significativi riconoscimenti: 1967, medaglia d’argento alla Prima mostra d’Arte Sacra a Casale Monferrato; 1968, medaglia d’oro del Console d’Italia a una mostra a San Marino; ancora 1968, premio di merito Libero Politecnico a Torino; 1969, premio acquisto alla Società modenese Esposizioni; 1970, medaglia d’oro del Ministero degli Interni e premio acquisto CIA per l’acquaforte «Favola» alla mostra di Arte viva «La donna nell’Arte» a Roma; 1971, premio per l’acquaforte «Il bosco» alla mostra «Grafica opera prima» della Galleria Il Vicolo di Genova, e altro ancora.

In questo periodo subisce però un non indifferente trauma perché, desiderosa di trasferirsi in centro città dalla zona un po’ periferica in cui abitavamo (al fine di perdere meno tempo nei trasferimenti alla scuola dove insegna e all’Accademia dove studia e, credo, anche per godere di più dell’atmosfera degli anni di studio da ventenne), trova un alloggio in affitto in via XX Settembre e vi si trasferisce incominciando a vivere da sola. In quell’ambiente, che si rivela poi umido, scuro e freddo, totalmente inadeguato, passa un brutto, solitario e sconfortante inverno. Finalmente in primavera trasloca in un nuovo appartamento tra Torino e Moncalieri, vicino ad amici, al sesto ed ultimo piano di una casa completamente soleggiata, aperta alla collina da un lato e al fiume e ai prati dall’altro; in un alloggio inondato da luce e colori, stimolanti per la tavolozza, anche se, nuovamente, distante dal centro città.

Vengono anche le mostre che pian piano la rincuorano e, soprattutto, l’obiettivo della prima personale di pittura, che terrà alla Stamperia del Borgo Medioevale del Valentino nell’autunno del 1972 dopo due anni di intenso lavoro. Valeria vi presenta opere molto belle, tra cui il memorabile «Nudo» (Intimità) (1970) riprodotto nel catalogo con presentazione di Albino Galvano, nonché un altro nudo, Pierrot (1971) rappresentato nella locandina, e così apparvero bei commenti sulla stampa. L’inaugurazione è un trionfo. V’è ressa nel locale espositivo; tutti suoi colleghi di scuola e d’accademia, di prima e di dopo, tanti amici, anche quelli dei vecchi tempi, tutti a dimostrarle affetto e ammirazione. Valeria è raggiante come non la si era mai vista, e le sue foto di quell’evento ne danno tutta la misura. Il successo la stimola a continuare il lavoro (il 1973 fu infatti straordinariamente fecondo con 18 quadri conosciuti) e a preparare nuove mostre. Allestisce pertanto una nuova personale l’anno successivo 1973 alla «Galleria Torre», proprio davanti all’Albertina, ancora presentata da Albino Galvano con riprodotto sul catalogo un sole («Sole (tondo n 1)», 1973), motivo poi sempre ricorrente, e nel 1975 un’altra alla Galleria «Il Cortilaccio» a Torino. Poi si ha una rarefazione della sua produzione e bisognerà aspettare la primavera del 1980 per un’altra mostra, che è una mini personale, alla Galleria «Eustachi» di Milano. In questo periodo Valeria, peraltro, approfondisce un nuovo modo espressivo, quello dell’acquarello che evidenzierà la parte più raffinata del suo animo.

Ma un incubo si affaccia nell’estate del 1980 con la improvvisa comparsa (era al mare a Riccione) di una protuberanza al seno sinistro: un tumore per il quale verrà operata in autunno all’ospedale Sant’Anna di Torino. Valeria è spaventata, ma confida nell’intervento e anche in questa occasione dimostra tutta la sua forza di reazione e quella tenacia combattiva che la coglieva anche nei momenti e periodi più critici. Bisogna qui ricordare anche l’amore di cui fu circondata durante la degenza; nella stanza arrivavano costantemente fiori, che dovevano essere in parte allontanati per il troppo profumo, e tante, tante persone, alle quali dovevo chiedere di non trattenersi molto, in troppi, per non stancarla eccessivamente. E i suoi scolari le mandarono poi a casa gli auguri di Natale (come quello di Maurizio Balotta: «Sono rimasto dispiaciuto per la sua indisposizione; le auguro con tutto il mio affetto di rivedersi presto e bene, con la sua proverbiale grinta»). Superato il trauma, si sottopone a ripetute chemioterapie fino all’autunno dell’81 durante il quale trova la forza di ricominciare a lavorare terminando, tra l’altro, i due quadri che sostavano sui cavalletti («Composizione: il vento»1 e «Riflessi»).

Vi è poi un buco di quattro anni nella produzione degli oli, invero riempito dall’approfondimento dell’acquarello, forse più consono, nel momento, alle forze disponibili. Infatti la nuova prima mostra, nell’aprile del 1984, è tutta su carta, presso la «Galleria Studio Laboratorio di Anna Virando» di Torino, con titolo «Discorsi col mare» presentata mirabilmente da Manuela Cusino, così come la successiva, dopo appena un anno, luglio 1985, all’«Eleutheros» di Albisola Marina, sempre con soggetti marini (le conchiglie questa volta) presentata da Pino Mantovani. Valeria si fa travolgere dal lavoro in questo periodo, come reazione, rivalsa e lotta sull’avverso; così, col riacquisto delle forze, la pittura riemerge. C’è l’invito a presentare un paio di lavori (con Romano Compagnoli, Luca Cappellari e Francesco Casorati) alla «Gibigianna» di Bra e, soprattutto, l’intensissima produzione di oli dello stesso anno 1985 come preparazione della nuova personale avvenuta a dicembre al Palazzo della Provincia di Asti con «L’albero rosso» sul catalogo (olio acquistato subito da Ghisleni, che lo avrebbe poi voluto titolare «Farinata degli Uberti»). Poi, incalzante, nuova personale di oli nel marzo 1987 alla Galleria «Il Mercante» di Genova alternata, nel novembre 1988, con una personale di acquarelli nuovamente alla «Galleria Studio Laboratorio» in cui espone la serie «Lune» e in cui compaiono anche le nuove sperimentazioni tecniche di tempere e collage.

Succede un periodo di riflessione, coincidente anche, nel 1989, col pensionamento dalla scuola che finalmente decide di lasciare dopo ripetute insistenze esterne. Il lavoro si intensifica e la pittura, in cui da tempo già non appariva la figura (non «interessandole» più l’uomo), si rinnova con soggetti che, pur sempre tratti dalla realtà, diventano più astratti, più staccati dalla stessa, come rivela la nuova personale del maggio 1991 alla «Galleria Duemme» di Genova. L’astrattismo si accentua nella personale del 1993 alla «Galleria Studio Laboratorio» e ancor più nella personale del 1994, nuovamente alla «Duemme». Per questa mostra Valeria si sottrae, per la prima volta, alla presentazione critica, preferendo formare il catalogo con sole due immagini, come a volersi svelare solo a chi fosse in grado di capirla.

Il lavoro continua, anche con gli acquarelli, ma le mostre non hanno più tempo di divenire. Qualche sottaciuto disagio in estate e poi, all’improvviso, un segnale ci fa rincorrere le analisi cliniche, che decretano subito l’esizialità del male; è stato attaccato il pancreas. Valeria non sa e acconsente all’operazione, che sarà molto gravosa e debilitante; e sarà anche inutile tentare, questa volta, la chemioterapia. Ciò nonostante lei ripone tutta la fiducia e impegna tutte le forze per venirne fuori. C’è un po’ di ripresa di energie dopo la lunga degenza in clinica, contrassegnata, tra l’altro, anche da alcune pesanti contrarietà. In qualche momento di mestizia dice: «Ma proprio adesso?» Sì, quell’adesso, perché non c’erano più affanni particolari e avrebbe potuto essere libera di fare tante cose: non aveva più l’impegno della scuola; la pensione arrivava regolarmente, era forte e tutti, stupiti, le davano almeno dieci anni in meno della sua età; c’era la casa di Bardonecchia (acquistata in comune con l’eredità lasciata da nostro padre) che aveva appena arredata (compreso un apposito tavolo da lavoro da lei progettato); c’era Riccione, che l’aspettava ogni anno, dove sfoggiava bellissimi vestiti. Già, Riccione! Quando, ritornata a casa dall’ospedale, ancora confidava nel risorgere, mi diceva: «quando sarò più in forze mi porti un po’ a Riccione? Là mi rimetterò più in fretta». E poi, quando comprese che le forze tardavano per un percorso così lungo, arretrò un po’ la speranza: «Mi porterai a Bardonecchia, vero?»

A Riccione, in effetti, transitando per andare a Morciano, la portai per il suo «ultimo» viaggio con sosta anche sul lungomare, davanti ai bagni n 87, da Giuseppe, il 26 aprile della primavera successiva, 1995. In quel preciso luogo, sempre il medesimo, non era mai mancata un estate da quando aveva due anni (al tempo in cui si andava nella casa della nonna a Riccione paese, con campo di granturco e galline), per almeno un mese ogni anno; si rilassava e rinfrancava; alle otto, tutte le mattine, una nuotata in mare che, a quell’ora, era uno specchio. Per lei il mare era quello. Ma non si perdeva! Quella intensa spiaggia di luglio le dava le immagini per i suoi dipinti: i soli sopra l’orizzonte del mare, l’orizzonte che taglia il quadro in due, le conchiglie, le ondine, i fasci di luce nell’acqua, la splendente luce, i colori dei suoi vestiti, le grandi lune; quasi tutto veniva da quei riposi estivi, e i suoi taccuini erano pieni di appunti, schizzetti, segni, e le immagini restavano scolpite nella mente, che era come una lastra fotografica. Non ha invece lasciato scritti o lettere che commentassero il suo lavoro e le sue opere, e neppure si soffermava a parlarne a voce.

Nonostante i suoi modi bruschi, manifestati soprattutto sui 25 anni con risposte decise ed espressioni categoriche, Valeria era molto dolce, onestissima, aveva chiara la sua visione, era decisa, si dava forza da se stessa; da lei si imparava, non tanto dalle parole, ma dal comportamento, si era sicuri che lei c’era. Ma aveva pure bisogno degli altri, che anche cercava. Aiutava quanti le venivano accanto, era fedele e tollerante amica, si ricordava di tutti per le ricorrenze festive dipingendo lei stessa i biglietti di auguri (come ne aveva fatti tanti da studente, la sera, su commissione), andava a trovare le figliocce a Bologna, venerava le ricorrenze della mamma, frequentava tutti i parenti della Romagna quando era al mare. Per lei voleva poco, solo che le persone fossero per bene, disprezzava i malanimosi, gli affaristi, i parolai. Si rammaricava di certi fatti o aspetti del suo passato che la incupivano e talora ancora la tormentavano e la rendevano in certe cose insicura.

Ma non si lamentava. Nemmeno, e soprattutto, quando è stata molto male. In ospedale accoglieva con un grande sorriso l’infermiera che la assisteva la notte e che sapeva bene sorreggerla per darle sollievo. A casa, quando il giro quotidiano nel parco del caseggiato, sorretta al braccio, diventava sempre più corto anziché allungarsi, capì e, rientrando, le scendevano solo alcune lacrime, non una parola. Era estremamente debole durante questa convalescenza; non riusciva a leggere, poteva ascoltare la musica solo per poco, anche le parole degli altri solo per poco e a toni sommessi, sopportava solo qualcuno (la cugina Luigina, Franca Elia, le giovani Cereti…). Ogni gusto di cibo era perfido e occorreva averne di molti tipi, pochi bocconi di ciascuno. Nello stesso tempo, oltre che uno strazio, era una delizia accompagnarla in tutto, perché era diventata dolcissima in ogni espressione, parlata o lievemente gestuata. La sua mente era lucidissima, ancora più di prima, ricordava ogni cosa, nome e pensiero, prontissima nel giudicare le persone nuove che le si potevano accostare, ne coglieva subito l’essenza (come era sempre stata capace, prima, di tratteggiare in pochi minuti con la matita la figura di un volto rivelando il carattere della persona).

Non si lamentava. Accolse, non credo con speranza, forse per dovere e abitudine alla speranza, la fastidiosa cura Di Bella che, comunque, per un po’, diede la tensione a combattere. A un certo punto, con un gesto e la sola parola «basta», decise di rifiutare le amarissime pozioni. E solo quando le comunicai che, in caso di bisogno, avevo a disposizione la morfina, la stessa notte me la chiese (non voleva ancora dirmi che aveva male, forse per non addolorarmi ancor più). Poi le cose precipitarono e, dopo una fugace corsa all’ospedale, si spense a casa; erano le 15 del 24 aprile 1995.

Ricordo qui, anche, che proprio all’inizio della degenza un suo ex scolaro, divenuto affermato architetto, l’aveva cercata perché voleva affidare a lei, proprio a lei, la illustrazione della Via Crucis della cappella della casa di riposo che aveva progettata vicino a Torino. Come sarebbe stata bella e conclusiva, per lei, quell’opera!

Nella celebrazione funebre presso la Parrocchia Sant’Agnese di Torino, organizzata dalla diletta Anna Virando, il parroco Don Gianni Marchesi, rivolgendosi al pubblico per l’omelia, manifestò sorpresa per la grande folla presente nella chiesa, e disse che «certo doveva trattarsi di una grande e amabile persona se accorre così tanta gente per questo saluto». Sì, nessuno era più potuto venire a trovarla a casa, ma tutti erano venuti infine a salutarla. Qualcuno anche da molto lontano nella ripetuta funzione di Morciano, dove è sepolta accanto alla madre e al padre.