Pino Mantovani descrive e fa rivivere con grande acutezza i giovanili lavori di scultura di Valeria, quelli che rimangono della sua attività in questo settore di produzione risalente unicamente al quadriennio 1948-52 come allieva di Scultura dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli ci introduce con grande sapienza e suggestione nella Torino artistica dell’epoca, nel contesto precedente e contemporaneo a Valeria, descrivendo il «territorio e il substrato che contribuì all’iniziale formazione e al dibattito del suo primo impegno d’artista». Segue quindi un’analisi specifica del linguaggio proprio della scultura. Ci dà anche una chiave di lettura dell’opera successiva, pittorica e grafica di Valeria (della quale fu compagno nella di lei ulteriore frequenza alla stessa Accademia, corso di Pittura, sul finire degli anni ‘60) che appare chiaramente radicata in quella originaria vocazione.

Una giovane scultrice intorno al 1950
| di Pino Mantovani |
Conseguito nel 1948 il diploma del Liceo Artistico, Valeria Ciotti si iscrisse al corso di Scultura della Accademia Albertina, tenuto da Umberto Baglioni (assistente alla cattedra Giovanni Chissotti), ottenendo dall’inizio stima ed il massimo della valutazione.
Tutto il suo impegno, negli anni di frequenza della Accademia fino al ’52, si concentrò sulla scultura, come dimostrano le poche ma significative opere rimaste, formate in gesso (di alcune altre resta traccia in foto d’epoca), insieme con i numerosi disegni riconducibili all’operare plastico.
Quando Valeria si trovò «nella necessità» di sospendere la attività artistica, la sua reazione, scartando compromessi, fu quella di cancellare la pratica della scultura dalla propria vita. Il fatto è che Valeria era troppo seria e drastica nelle sue scelte per supporre che la Scultura potesse condividere le proprie ragioni, o che uno scultore dovesse suddividere un impegno ideativo e tecnico che esigeva d’essere assoluto con attività diverse.
Per un decennio, la giovane che aveva sognato di darsi interamente alla scultura, accantonando qualsiasi intenzione creativa, si applicò alla progettazione di arredamenti e decorazioni d’interni per un noto antiquario torinese, e soprattutto all’insegnamento di Educazione artistica nelle scuole medie, quindi lontano anche dagli ambienti che l’avevano affascinata, dai maestri che l’avevano apprezzata e da quel professionismo che le circostanze le avevano negato.
Cadute nei primi anni ’60 le ragioni della scelta, Valeria non tornò comunque alla scultura, avvicinandosi prima timidamente poi con impegno sempre più convinto alla grafica ed alla pittura. La scelta della pittura sarebbe venuta a seguito del trauma mai del tutto superato? A me pare invece plausibile che la pittura della maturità e non marginalmente la grafica abbiano rappresentato una nuova strategia per inverare la visione connaturata. Pittura e grafica, infatti, non avrebbero potuto svilupparsi in un certo modo quando non ci fossero state a fondamento una attenzione, una sensibilità, una abilità, una logica da scultore: da lì sarebbero venuti gli andamenti chiusi delle linee di forza, la chiarezza nell’organizzare i piani, cromaticamente caratterizzati e filtrati dalla luce ma inesorabilmente composti e costruiti come è proprio di uno scultore, appunto; e di uno scultore antipittorico, che la luce la prende nella rete invece che farsene irretire, e antipittoresco, cioè concentrato su alcuni pochi elementi severamente studiati nella loro interna struttura e non solo suggestionato dall’apparenza immediata.
Come a dire che, usando l’alibi di un diverso linguaggio, grafico o pittorico, Valeria Ciotti riuscì a difendere le ragioni più fonde della propria visione figurativa. Alla maniera di altri, non pochi, ai quali cause ideali, morali e specialmente pratiche avevano reso impossibile coltivare la scultura, l’artista avrebbe a mano a mano maturato la convinzione che diversi linguaggi della figura potessero essere altrettanto efficaci, addirittura specialmente adatti a rendere quella visione che da giovane aveva senz’altro ed esclusivamente identificato con le pratiche dello scolpire.
È chiaro che, mutatis mutandis, sto pensando alla crisi del più grande scultore italiano del ’900, Arturo Martini, il quale arrivò a teorizzare «la morte della scultura», linguaggio troppo vincolato e vincolante per realizzare la varietà e il dinamismo del mondo moderno: meglio una moderna immagine del mondo, proprio là dove produce lo sforzo più tremendo, nella statuaria.
Così anche per Valeria Ciotti, quando si immergerà nella pittura senza avvertirla più come un ripiego o un divertimento dalla strada maestra, il problema diventerà quello di «modellare» l’acqua, il cielo, la vegetazione, in generale confrontarsi con la trasparenza, la leggerezza, la varietà, le metamorfosi della natura, usando una materia non più inesorabilmente votata al terragno e delle tecniche, per così dire, non più commisurate alla lentezza dei mutamenti geologici.
Ma, aperto uno spiraglio sul seguito, torniamo alla ridotta produzione plastica di Valeria Ciotti che è riuscita ad attraversare i cinquant’anni che separano dalla sua esecuzione.
E cerchiamo di mettere a fuoco e collocarne le caratteristiche.
Serve in primo luogo, anche perché assai scarsi gli studi sull’argomento, tratteggiare quali fossero gli insegnamenti e i modelli presso l’Accademia Albertina, e quale la situazione a Torino, dove si veniva formando l’artista da giovane, con poche possibilità di modificare l’angolo d’osservazione.
Il corso di Scultura aveva avuto nell’Accademia torinese una stagione, almeno sulla carta, straordinaria. Andato in pensione nel ’36 il senatore Rubino (ma presidente dell’Accademia fino al ’44, e ancora uomo di potere nel dopoguerra, nonostante le compromissioni con il Regime), rappresentante come artista di un eclettismo neo-rinascimentale sfociato in un contenuto florealismo che nell’ultima stagione s’era adeguato al gusto epocale sintetico e monumentale, in un breve arco di tempo occuparono la cattedra di scultura Italo Griselli, Giacomo Manzù e Marino Marini. Una bella sequenza, se non fosse che tutto avvenne tra la fine dei Trenta e la prima metà dei Quaranta. Cioè nell’imminenza e durante la guerra, che sconvolse anche il normale funzionamento della scuola d’arte: per la ridotta presenza tanto degli allievi quanto dei docenti (specialmente di quelli che venivano da fuori spesso con mezzi di fortuna, o che addirittura erano stati chiamati o richiamati alle armi), per una assai irregolare e frammentaria attività didattica, per i danni che l’edificio ebbe a subire a seguito di ripetuti bombardamenti, a cominciare dall’estate del ’42.
Non si può dire, comunque, che i maestri ora citati non abbiano lasciato qualche traccia, non fosse altro che per aver portato «l’arte moderna» all’interno della scuola di Scultura, insieme con docenti di altre discipline, immessi con un vero e proprio colpo di mano all’inizio dei Quaranta per volontà del Ministro Bottai (consigliato da Giulio Carlo Argan, che, già allievo a Torino di Lionello Venturi, era tra i pochi storici dell’arte che si occupassero anche di «contemporaneità» e che si preoccupassero della sorte delle Accademie, tagliate fuori dalle riforme che avevano modificato l’assetto delle scuole anche di formazione artistica). Sono infatti messi in ruolo per chiara fama Enrico Paulucci e Felice Casorati (Pittura), ottiene incarico per un decennio Italo Cremona (Decorazione); si rinnovano anche i quadri degli assistenti e degli incaricati; transitano per periodi più o meno lunghi o si stabilizzano «artisti moderni» come Albino Galvano, Alberto Cravanzola, Adriano Sicbaldi, Adriano Alloati, Giulio Benzi, e più tardi a guerra conclusa, Giovanni Chissotti, Mario Davico, Filippo Scroppo, Franco Garelli, Mario Calandri.
Né si può dimenticare che proprio uno scultore, Michele Guerrisi, dalla cattedra di Storia dell’arte e pubblicando una serie di saggi, aveva affrontato in Accademia, sia pure da un punto di vista «classico» e ideale, ma anche idealista in linea con posizioni teoretiche di Croce, problemi centrali della modernità con particolare riferimento alla scultura (nello studio privato di Guerrisi in Via Collegno fecero esperienza giovani di belle speranze come Mastroianni e Giansone).
Si deve aggiungere, perché almeno uno schema della situazione della scultura sia delineato, che Torino dall’800 è una città di scultori, per numero e qualità di studi e laboratori, e di sculture più o meno monumentali ad uso civile e religioso, come rilevarono a tempo i fratelli De Chirico che ne trassero geniale ispirazione, e come chiunque può verificare aggirandosi per la città dei vivi e quella dei morti. Nella seconda metà degli anni Trenta, le Collezioni del Museo Civico d’Arte Moderna si arricchiscono di numerose sculture, fra gli altri autori, di Libero Andreotti, Umberto Baglioni («Selvaggia»), Antonio Berti, Leonardo Bistolfi, Davide Calandra, Venanzo Crocetti, Italo Griselli («Silvano»), Michele Guerrisi («Nuotatrice»), Giacomo Manzù (Ritratto di Rosy Birolli), Marino Marini («Pugile»), Arturo Martini («Maternità» e «Ragazzo seduto»), Francesco Messina («Pugilatore»), Romano Romanelli, Roberto Terracini («Lola nuda»); ma il Cimitero Generale – o monumentale – è l’unica sistematica raccolta di scultura, nel bene e nel male, tra ’800 e ’900.
Qui importa sottolineare che anche al di fuori dell’Istituzione accademica il fervore almeno realizzativo se non creativo è notevole ancora nel Ventennio; e riprende quando, a guerra finita, si presentano occasioni di ulteriori monumenti, questa volta dedicati agli ultimi miti (Resistenza, Lavoro, Martiri laici e religiosi…). Curiosamente la cosiddetta legge del 2 elaborata in epoca fascista per favorire gli artisti ma anche legarli al Regime, viene raccolta e rilanciata nel dopoguerra proprio dalla parte ideologicamente più avversa ma interessata a favorire una committenza pubblica, in ispecie controllabile localmente.
Infine, non mancano a Torino alcune occasioni espositive nelle quali un giovane curioso può trovare informazioni fresche sulle esperienze di ricerca almeno italiane, e non solo.
Tenendoci agli anni dal 1947 al 1952, che sono quelli che ci importano rispetto alla formazione di Valeria Ciotti, ed in particolare alla scultura, proponiamo un sintetico elenco (la sua funzione è di segnalare quello che la giovane poteva vedere nella città dove viveva, e dalla quale molto raramente si allontanava).
1947 – Premio Torino – scultori presenti: Manzù, Marini, Mastroianni (fuori concorso), Bertagnin, Calvani, Chiss, Ciminaghi, Comazzi, Consagra, Fazzini, Figini, Giansone, Ghiozzi, Q. Martini, Mascherini, Minguzzi, Panciera, Venturino; premiati, Fazzini, Mascherini, Panciera. – Alla «Galleria del Bosco» espongono Regosa e Rambaudi; al «Grifo», Tarantino.
1948 – Premio Saint-Vincent – premiati fra gli scultori: Minguzzi, Greco, Panciera, Broggini; presenti anche Tarantino e Piccolis. – Alla «Bussola» espongono Mastroianni e Piccolis; alla «Galleria del Bosco», Cherchi; al Circolo degli Artisti, Giovanni Chissotti.
1949 – I Mostra Internazionale dell’Art Club – presenti fra gli scultori, Lipchitz, Consagra, Mirko Basaldella, Leoncillo, Fazzini, Marini, i «torinesi» Garelli, Mastroianni, Tarantino, Regosa, Chissotti, Chiss. – II Premio Saint-Vincent – premiati per la scultura Mastroianni e Fazzini, presenti anche Mascherini, Negri, Mirko, Piccolis, Garelli, A. Alloati. – Espongono alla «Bussola» Garelli e Piccolis; al «Grifo», Fazzini.
1950 – alla «Bussola» e al «Grifo», Martini.
Negli anni successivi, le presenze degli scultori presso gallerie private sono pressoché nulle; unica occasione le mostre annuali alla Promotrice delle Belle Arti, riprese non senza polemiche nel ’45, di particolare interesse ed ampiezza le esposizioni del ’51 (Quadriennale) e del ’52 (per il centenario dell’Istituzione), dove le commissioni per gli inviti, relativamente alla scultura, vedono presenti Baglioni, Rubino, Musso, Mastroianni.
Nel 1952, significativa e di grande interesse per gli scultori, la «Mostra del ritratto romano» a Palazzo Madama.
È evidente, anche solo da questo elenco, che mancano localmente per la scultura alcune occasioni di aggiornamento che favoriscono la pittura, come «Arte francese d’oggi» dell’inizio del 1947 e le Francia-Italia, dal 1951.
Che cosa raccoglie la giovanissima Ciotti, frequentando il Liceo Artistico, dove è allieva di Giovan Battista Alloati, e poi l’Accademia con Umberto Baglioni e Giovanni Chissotti, di tutte queste anche contraddittorie indicazioni e suggestioni?
Purtroppo ci manca la sua testimonianza, ma qualcosa possiamo sapere per via indiretta da compagni e amici più o meno coetanei, alcuni dei quali hanno proseguito nell’attività artistica, come Carmelina Piccolis, Franco Pirastu Usai, Vera Quaranta; e qualcosa cercheremo di individuare osservando le opere.
Se Franco Pirastu era il simpatico entusiasta che ha continuato ad essere (fig. 1), non senza pregevoli doti di brillante modellatore, specialmente evidenti nei ritratti, Vera Quaranta l’amica confidente, già allora – anche per i suggerimenti di Cremona – aperta a varie esperienze tecniche e creative, è stata forse la Piccolis il riferimento più importante per Valeria Ciotti negli anni di formazione, per la grintosa affascinante personalità anche prima che per le non comuni qualità realizzative. Che erano state presto riconosciute fuori dall’ambiente scolastico (di fatto Carmelina frequenta l’Accademia relativamente tardi – era nata nel ’23 – entrando subito in polemica con l’Istituzione, tanto da abbandonarla allo scadere del terzo anno). I suoi primi exploit datano alla fine dei Quaranta, con le personali al «Grifo» e alla «Bussola» nel ’48 e ’49, e i Premi Saint-Vincent degli stessi anni. Bruciando le tappe, la Piccolis riesce a portarsi per intuizione, intelligenza e scelti modelli su posizioni aggiornate, confrontandosi alla pari con le esperienze d’avanguardia della scultura, a Torino spettacolarmente rappresentate da Umberto Mastroianni e con discrezione da Piero Ducato e Luigi Comazzi, altrettanto consapevoli dell’eredità neofuturista e attenti alle informazioni delle Biennali veneziane; in altra direzione da Mario Giansone, che opera sfruttando l’eredità liberty ma spogliata d’ogni decorativismo e ricondotta semmai ad un intreccio di forze lineari, e da Renzo Regosa che l’esempio liberty usa per elaborare una mobilità sgusciante e avvolgente, ripensata e solidificata anche sui modelli di Libero Andreotti e Marino Marini; su posizioni al momento dichiaratamente neocubiste (picassiane), Franco Garelli, ancora indeciso tra dipigere e modellare, già spinto peraltro da una curiosità apertissima e da una frenetica agilità operativa. Già nel ’53, a margine di un ricco servizio fotografico uscito su «Domus», Gio Ponti inventa per la Piccolis la suggestiva formula «Un Martini dopo Moore» (la scultrice seguirà Gio Ponti in Brasile, dove resterà alcuni anni, esponendo, fra l’altro, al Museo d’Arte Moderna di San Paolo).
Tutti scultori – quelli che ho nominato, tra gli attivi a Torino, non necessariamente torinesi o piemontesi- che si sono formati fuori della Accademia, salvo Comazzi, nei laboratori dei professionisti, e che, specialmente, hanno incontrato a tempo Arturo Martini, a cominciare dai progetti per il Monumento al Duca d’Aosta e come autore della «Lupa» e della «Pisana», opere che furono viste a tempo, rispettivamente nel ’30 e nel ’31, nella stessa Torino (dove l’artista trevigiano era già comparso nel ’29 in una mostra di presepi, subito segnalata dall’intelligente oltre che dotato Gigi Chessa, il quale del resto conosceva lo scultore dai tempi di Anticoli). Con Martini si confronta anche un eccezionale «dilettante», Piero Rambaudi, nell’arco degli anni Trenta, senza rinunciare però alla frequenza di Leonardo Bistolfi e dell’ambiente di tecnici-esecutori intorno gravitante; ancora nel ’47 Rambaudi organizza, alla «Galleria del Bosco», la sua ultima mostra di sculture, con opere realizzate entro il ’38, frantumate per necessità di sfollamento, e a guerra terminata rilette in rapporto alle nuove ricerche proprie ed epocali.
È certo significativo che nel ’50 la Piccolis realizzi un ritratto di Valeria Ciotti, di cui esiste una buona fotografia d’epoca, di recente pubblicata in Le arti visive in Piemonte – 1945/52, Torino 1999 (fig. 2). Non può non esserci al fondo, pur nella differenza dei caratteri (tanto estroversa fino all’aggressività la Piccolis quanto discreta la Ciotti), una dichiarazione di stima da parte della maggiore già affermata scultrice nei confronti della più giovane, riservata studentessa del II anno d’Accademia. E, in un certo senso, è da intendere come una risposta a quel ritratto quello di Vera Quaranta, allora allieva di Decorazione, già compagna di Liceo e amica, realizzato da Valeria Ciotti (l’opera è tuttora presso l’artista ritratta, fig. 3), sul filo, peraltro, di un interesse costante per il genere, documentato da una ristretta serie di immagini: un busto di giovane donna, del 1949, un busto di signora ridente, del 1951, due teste di ragazza del 1950 (fig. 4) e del 1951, esposte alla Promotrice delle Belle Arti (come da didascalie sul retro delle foto d’epoca), il ritratto di Vittoria Pezzini Lucarelli.
Il confronto del ritratto di Valeria eseguito dalla Piccolis con quello di Vera eseguito dalla Ciotti mi pare possa portare qualche utile contributo. La Piccolis realizza una potente maschera, sintetica ma non stilizzata, per dirla con Gio Ponti «in una plastica che non si impoverisce dei suoi limiti corporali ma si arricchisce delle allusioni, dei giochi, delle morbidezze che dal corpo umano provengono» (anche se, a dire il vero, il commentatore è più convinto degli esiti raggiunti nei nudi che dalle teste). La Ciotti, invece, mentre usa la forte caratterizzazione fisionomica dell’amica, interessantissima per uno scultore che voglia sfruttare i punti chiave della struttura scheletrica e cartilaginea rivestita di muscoli e pelle, ammorbidisce i piani, muovendoli a forza di una fitta digitazione plastica, che riesce – e questo appartiene tipicamente al linguaggio della scultura – a catturare la luce negli accidenti superficiali (la pittrice, a distanza di anni, userà supporti grezzi, di evidente tessitura, per frantumare lo scorrimento della luce, senza introdurre ulteriori artifici).
Se vale per la Piccolis la formula «Un Martini dopo Moore» – sempre sul piano suggestivo e senza dissennate equiparazioni qualitative- per la Ciotti potrebbe valere «Un Medardo Rosso dopo Martini»: il punto di massima vicinanza allo scultore lombardo è probabilmente il «Ritratto di signora» del 1951 esposto alla Quadriennale torinese nello stesso anno, se non inganna l’iconografia ridente e la doppia fotografia d’epoca (l’opera è attualmente irreperibile) che segnala una modellazione specialmente morbida e avvolgente. Come a dire che i problemi di una plastica che non si isoli nello spazio ma ne partecipi integrando la «cosa» all’alveo che l’accoglie, sono affrontati puntando sulla superficie come limite dove si riconosce la pressione dall’esterno verso l’interno e dall’interno verso l’esterno, di fatto irretendo l’energia luminosa nelle porosità pellicolari. Non sarebbe dunque, se non sbaglio, una questione di pura sensibilità tattile quella che induce Valeria Ciotti ad elaborare la superficie delle sue sculture, ma una ragione strutturale. Va anche detto che le spinte dall’interno e dall’esterno restano sostanzialmente in equilibrio, così da non deformare la figura, ciò che risulta tanto più evidente nel ritratto, dove la «somiglianza», da intendere come identificazione e come equivalenza alla realtà, è essenziale.
Torno a chiedermi chi e cosa la giovane Ciotti potesse guardare con particolare attenzione. Forse anche aiutata dal praticare il ritratto, un genere che continuava ad essere, in scultura più che in pittura, prova impegnativa anche per gli artisti delle ultime generazioni, come era stato nella tradizione (segnalo i ritratti più o meno coevi di Mastroianni, Ducato, Giansone, Comazzi, Regosa, Giovanni Chissotti, dei più giovani Filippo Chissotti, Renato Cottini, Adriano Alloati, Jetta Donegà, da aggiungere a quello già considerato della Piccolis e a un bell’esempio «da provincia romana» di Pirastu Usai). È plausibile che tra questi autori prossimi siano da cercare i riferimenti immediati, eventualmente per contrapposizione, di Valeria Ciotti ritrattista, anche come mediatori di suggerimenti raccolti da Manzù e Marini, che, a parte pochissime lezioni tenute in Accademia, si erano visti anche alla Promotrice oltre che a Venezia (dove non ho prove che andasse la Ciotti, a cominciare dal ’48, prima Biennale del dopoguerra; senza peraltro dimenticare che Valeria passava parte dell’estate al mare a Riccione, cioè non a gran distanza da Venezia).
Nemmeno esiste traccia se Valeria leggesse allora i non numerosi testi teorici sulla scultura usciti nel dopoguerra o nell’immediato anteguerra, a cominciare da quelli di Michele Guerrisi, come si è già detto docente di Storia dell’arte a Torino, trasferito a Roma nel ’41, che erano comunque consultabili presso la biblioteca dell’Albertina, Scultura lingua morta e i Colloqui con Scarpa di Arturo Martini, e poi, tanto meno, Il problema della forma di Hildebrand, pubblicato in traduzione italiana nel ’49 a cura di S. Samek Ludovici, integrabile con il manuale di Adolfo Wildt, che prendendo spunto dalla tecnica di lavorazione del marmo critica la statuaria d’eredità verista e ragiona in generale sull’arte dei pieni e dei vuoti, fino ad Arcadio o della scultura di Cesare Brandi, edito con gli altri dialoghi sulle arti verso la fine dei Quaranta, presso Vallecchi.
Come tendo ad escludere che avesse presenti recensioni e saggi dedicati alla scultura, in particolare di Carlo Ludovico Ragghianti, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, usciti su riviste specializzate sul finire dei Quaranta, e, nel caso di Argan, riediti in volume nel ’55, nel caso di Brandi e Ragghianti molto più tardi. E non so quindi valutare se avesse nozione del dibattito tra figurazione e astrazione che anche in Italia non risparmiava la scultura. Anzi prendeva proprio rispetto alla scultura una identità particolare: per esempio, varrebbe la pena di studiare l’importanza di Moore, ben esposto e premiato nella prima Biennale del dopoguerra, non solo per gli scultori ma anche per i pittori dell’ultima e penultima generazione (proprio a Torino cito almeno Aurelia Casoni e Mario Davico); anche solo per un motivo, che la scultura continua ad essere «concreta», come una pietra o una pianta, anche quando non rappresenta i pochi tipi di «realtà» che le arti della figura tradizionalmente rappresentano, ovvero è «reale» – non a caso perennemente minacciata dal non meritare d’essere immagine – anche quando non imita qualcosa (di fatto, stirata tra un eccesso e una deficienza d’artificio, oscillante tra ragioni progettuali/mentali e una materialità inaggirabile, tra una astanza ovvia ed una presenza difficile da guadagnare: queste cose discute e approfondisce specialmente Brandi nel suo Arcadio; mentre per Argan, centrale è il conflitto tra linguaggio moderno e classico, ancora prevalente nella tradizione mediterranea, rappresentata al più alto livello da Manzù e Marini).
Il dibattito astratto-figurativo, rispetto alla scultura, aveva del resto proprio a Torino vitale tradizione: alludo almeno al Neofuturismo degli anni Venti-Trenta – dove s’era distinto Mino Rosso fra gli scultori – che aveva lasciato traccia cospicua, se è vero che proprio i Futurismi, primo e secondo, costituivano riferimento essenziale per gli scultori di più azzardata aggressività nel dopoguerra. Che Valeria non poteva non conoscere, dal momento che comparivano regolarmente alle Promotrici annuali e alle Quadriennali torinesi.
Ma è da pensare che, anche per la natura attenta e rigorosa, contassero per lei – che non dimentichiamo aveva tra i 18 e i 22 anni e stava facendo apprendistato – specialmente le indicazioni che riceveva all’interno della scuola, dove, del resto, non le mancavano riconoscimenti, in particolare la stima del maestro Umberto Baglioni, che la scelse per le Mostre Nazionali delle Accademie, dove fu segnalata due volte (a Roma nel ’50 e a Napoli nel ’51), e che – testimonianza orale del fratello – tentò inutilmente di convincere il padre dell’allieva prediletta a favorire la vocazione della figlia, forse intenzionato a proporne l’ingresso come docente nella scuola (Accademia o Liceo Artistico).
Baglioni non era soltanto lo scultore dei Giganti del Po e della Dora nell’attuale piazza C.L.N.; per esempio le due statue delle muse all’esterno dell’Auditorium ne provano l’eleganza; le opere alla Galleria Civica di Arte Moderna di Torino, una certa tendenza ad articolare la figura, anche fuori dai limiti di un dettato classico, o per tentazioni naturalistiche come nella «Selvaggia», del ’35, o per una vena quasi popolare come nella «Leda senza cigno», e specialmente nel «Nudo al sole», esposto e premiato nel ’51 alla Quadriennale di Torino. Sono almeno curiose alcune rare prove astratte degli ultimi anni.
E non meno dovevano valere certi discorsi, scambi di opinioni e informazioni tra allievi, ex allievi e giovani compagni di lavoro; perché non dobbiamo sottovalutare che, oltre una critica teorica e storica, esiste, continua ad esistere, una critica che passa attraverso il fare, il confrontare e il discutere in stretta attinenza.
Il caso Piccolis continua ad essere significativo e, nel confronto, utilissimo: perché, oltre alle doti naturali e alla personalità, poteva vantare relazioni personali di prestigio, prima fra tutte quella con il grande Mollino, con il quale i discorsi non potevano essere solo d’ordine tecnico ma ampiamente culturale e attraverso il quale si potevano attuare aperture d’orizzonte impensabili.
I fondamenti della scultura di Carmelina Piccolis potrebbero così riassumersi:
- Disegno come limite tra esterno e interno; contenuto e contenitore in così stretta relazione da non poter essere scissi.
- La scultura come centro attivante una esplosione-implosione.
- La scultura come architettura esemplare.
- La scultura come paesaggio.
- Protagonista, comunque la figura umana: il corpo dell’uomo, infatti, non solo fornisce esemplare articolazione, esso rappresenta la volontà di progettazione, occupazione/penetrazione, comprensione dello spazio fisico e di ciò che simbolicamente sostituisce o sottende.
Ciò che ho detto potrebbe verificarsi almeno in due opere della fine dei ’40, che certo Valeria ha conosciuto: «Jessica» e «La danza di Jessica» (fig. 6), vere architetture scolpite, che avrebbero meritato un materiale ben più stabile del gesso, e una collocazione meno precaria (possibile che il Museo Civico non avverta necessità di documentare una esperienza così significativa nelle vicende della scultura non solo torinese del dopoguerra?).
È proprio a confronto con la marcata articolazione strutturale dei nudi della Piccolis che mi pare debba valutarsi un aspetto tutt’altro che marginale nell’opera di Valeria Ciotti, un carattere che si conferma nell’arco dei quattro anni della sua produzione plastica, e che quindi non può attribuirsi a generica timidezza operativa.
Il nudo di giovane modella a grandezza naturale (fig. 7) che nel ’49-50 – secondo anno d’Accademia – viene esposto e segnalato alla Mostra delle Accademie di Belle Arti a Roma, presenta forse qualche durezza dovuta all’inesperienza, ma l’impostazione è già chiarissima e pienamente consapevole: una postura che gioca su due vedute principali, fronte e profilo, con dichiarate simmetrie, (la gamba destra avanzante, con leggero movimento dell’anca; le braccia troncate subito sotto le ascelle; la testa fortemente caratterizzata – ancora un ritratto – appena asimmetrica sull’asse del corpo adolescente osservato in ciascuna delle sue parti con puntigliosa attenzione).
Mi pare utile insistere sull’atteggiamento della testa marcatamente protesa in avanti a confermare il movimento della gamba, perché esso dà la misura di due intenzioni apparentemente opposte che sollecitano in un tempo la giovane scultrice: da una parte, l’intenzione di conferire la massima naturalezza alla figura, tanto dal punto di vista fisionomico (è riconoscibile la solita modellina) quanto nel movimento (si noti l’attenzione nel rendere il bilanciamento delle anche, dovuto allo spostamento del baricentro ed al peso specialmente poggiato sulla gamba destra verticale mentre la sinistra è arretrata ma altrettanto tesa così da far prevedere una oscillazione in avanti preparata dal sollevamento dell’anca e dallo stacco del tallone da terra); dall’altra parte conferire alla figura una presenza forte, semplificata secondo un modello arcaico che Valeria poteva aver studiato sulla scultura egizia largamente documentata nel Museo cittadino e anche sulla produzione di Mastroianni verso la fine degli anni Trenta, ma ancora nell’immediato dopoguerra, per esempio sul Monumento ai caduti della Liberazione al Cimitero Generale di Torino, inaugurato nel ’47 (Valeria poteva conoscere anche le radici prossime di certe soluzioni, dico il classico Guerrisi, se non Maillol o Mestrovic). Ma la Ciotti si astiene da stilizzazioni, salvo il troncamento delle braccia, e preferisce attenersi ad una visione «realistica», per così dire da ritratto a figura intera, senza idealizzare alcuna parte, tanto meno le proporzioni abbastanza tozze. Si osservi al confronto il «Nudo di giovinetto» o «Ritratto del figlio» di Mastroianni, donato dall’autore al Museo Civico d’Arte Moderna nel ’60, ma della fine dei Trenta e con buona probabilità noto alla giovane scultrice).
La soluzione dovrà essere ricondotta alla condizione di apprendistato? Quanta parte potranno aver avuto il giudizio e i suggerimenti del maestro Baglioni, che, come il coetaneo e conterraneo Guerrisi, viene dalla Calabria e da una formazione stirata tra classicità, con qualche tentazione arcaizzante, e naturalismo?
Dare una risposta non è facile; è semmai possibile accertare che i nudi degli anni immediatamente successivi, fino al ’52, confermano i caratteri ora riscontrati nel primo nudo (sono quattro in tutto i nudi pervenuti, tre a grandezza naturale e uno di circa 95 cm di altezza compresa la base, fig. 8; di un quinto nudo femminile, del ’50, c’è documento in foto d’epoca, fig. 5).
E coerenti sono le indicazioni dai disegni a linea pura, i quali più che progettare accompagnano, leggono, addirittura interpretano le figure modellate. In essi risulta evidente che gli snodi, pur indagati con intelligente coerenza, non sono usati, come avviene nei nudi della Piccolis, per aprire i corpi e verificare come e quanto riescano – i corpi – ad articolarsi in segmenti, così da occupare almeno per segnali lo spazio, ma per chiudere: la visione di Valeria Ciotti privilegia, infatti, forme raccolte ben profilate. Lo dimostrano anche le fotografie scattate al tempo sotto il controllo della scultrice, che non puntano sulla netta articolazione volumetrica dell’immagine plastica, ma usano una illuminazione dolce per evidenziare la morbidezza della modellazione all’interno di una precisa profilatura.
Se i nudi della Piccolis sono provocazioni di organiche geometrie, prometeico squassamento di una struttura insieme astratta e concreta, i nudi della Ciotti restituiscono una immagine placata, per così dire reclinata su sé medesima; e chiusura deve intendersi anche come specificazione, particularizzazione della figura. È significativo che in essi la testa sia protagonista (fig. 9) (mentre nei nudi della Piccolis la testa è spesso troncata come gli arti quando non esprimono il potenziale dinamico e la ubristès che sovrintende).
Come a dire che l’espressività nella Piccolis è affidata all’eloquenza del corpo; nella Ciotti, invece, è specialmente concentrata nel volto, mentre il corpo, evitando distrazioni ginniche e puntando su posture antieroiche perfino dimesse, prepara l’intensità del volto. Tanto che, non a caso, la testa guadagna una avvertibile dilatazione quantitativa, che potrebbe essere intesa come conseguenza di una prospettiva gerarchica, a meno non si legga come scelta di anatomie macrocefale, giovani o mature, con un rapporto proporzionale testa/corpo di circa 1/6 (certamente Valeria ha studiato anatomia sul manuale del Morelli, distribuito dal ’40, dove una parte cospicua è dedicata alle proporzioni e ai canoni, oltre che allo studio della dinamica).
Affermare che per Valeria Ciotti il corpo è insignificante supporto della testa sarebbe eccessivo e soprattutto in contrasto con il tono medio che caratterizza i suoi lavori, escludendo deformazioni espressive o stilizzazioni, ma è plausibile sostenere che la misura di tutto è la testa. L’interesse per la testa è stato, del resto, ripetutamente sottolineato, esaminando la serie dei ritratti dichiarati. Che tutto il corpo sia «ritratto» dimostra l’attenta caratterizzazione delle specifiche forme, che descrivono diverse anatomie e diverse età, e non sono mai impressionisticamente abbreviate. La finitezza è dunque qualità di contenuto come di forma.
Insistendo sul solito confronto, che a questo punto assume una valenza perfino retorica, possiamo dire che, mentre Carmelina Piccolis punta sulla esemplarità della tipologia anatomica, proporzionalmente perfetta (con qualche suggestione manierista), riconducibile ad una età costante che è quella della ginnica scioltezza (età teorica, allora, più che biologica, anche se certi caratteri anatomici farebbero supporre una matura giovinezza); età e tipologia anatomica sono per Valeria Ciotti oggetto di perspicua indagine non meno che i tratti di una fisionomia.
Circa la espressività, bisogna che ci s’intenda: essa consiste, piuttosto che in accentuazioni mimiche intese a manifestare particolari condizioni psichiche, in moderate sottolineature fisiognomiche. Per esempio, gli occhi occupano del volto una porzione inusitata, per estensione longitudinale e per ampiezza; a volerli leggere in chiave espressiva, si direbbero dilatati dallo stupore, o sbarrati dalla sorpresa, mentre sono, in primis, coerenti con l’attonita fissità della scultura (fig. 10).
Anche la gestualità del corpo è assai contenuta, ineloquente: braccia aderenti al corpo, lungo i fianchi o portate dietro la schiena, mani raccolte o addirittura intrecciate sul davanti o dietro; gambe mai troppo divaricate, così da non mettere in crisi la sostanziale unità del corpo. Questo non toglie che il corpo si presenti sempre leggermente asimmetrico, per movimenti di rotazione e di bilanciamento che si trasmettono in ogni parte, dalla testa alle spalle al tronco agli arti superiori, dal bacino agli arti inferiori.
È chiaro che gli esempi più ricchi e convincenti di quanto si è detto sono quelli ultimi per la giovane scultrice, che datano al ’51-52: dico Nudo seduto (fig. 11) e Nudo al vero (fig. 12).
Cosa sarebbe seguito a queste malinconiche robustissime figure?
Appendice
Mi pare che queste pagine abbiano bisogno, invece di una sfilza di micronote che diano parvenza di scientificità, di alcune giustificazioni e indicazioni di fondo.
Ho conosciuto Valeria in Accademia, frequentando la scuola di Pittura di Enrico Paulucci verso la metà dei Sessanta. Non ricordo che mi abbia mai parlato di una sua attività di scultore, ben precedente a ciò che mi si palesava: un disegno forte, una pittura di marcata vitalità cromatica. Poteva essere una insegnante di Educazione artistica che si permetteva, in ritardo, di realizzare un sogno. Solo parecchi anni dopo mi capitò di andare a casa sua. Fu in quell’occasione che mi fu nota per la prima volta una sua scultura, il Nudo seduto, che teneva nell’anticamera. Non sono sicuro, però mi pare che qualcuno, forse Carmelina Piccolis, mi avesse già accennato ad una formazione da scultore di Valeria.
Un primo motivo per dare a questo scritto una impostazione storica è proprio questo: liquidare la tentazione cronistica.
D’altra parte, manca uno studio complessivo sulle vicende della scultura a Torino nel dopoguerra, essendo fin troppo numerosi gli scritti sull’unico fra gli scultori operanti a Torino che abbia avuto fortuna nazionale e internazionale, Umberto Mastroianni (i casi di Giansone, Garelli e Cherchi continuano ad essere assai meno studiati). Definire per sommi capi quali fossero le occasioni locali, anche senza poter ogni volta provare che Valeria Ciotti vi si rapportasse e come, mi è parsa cosa da farsi, non fosse altro che per tracciare un quadro del territorio dove si collocava l’impegno giovanile di Valeria.
Devo dire che sulla situazione culturale, anche rispetto allo specifico figurativo, non mancano studi seri: quelli sempre puntuali e documentatissimi di Angelo Dragone, generali (almeno, «Le arti figurative» in Torino fra le due guerre, catalogo, Torino 1978; «Le arti visive», in Torino città viva. Da capitale a metropoli 1880-1980, Torino 1980) e particolari sulla scultura (per esempio, Giovanni Ferrabini, Torino 1992); di Piergiorgio Dragone (cito almeno Mario Giansone, catalogo per la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torre Pellice, Torino 1998; e Franco Garelli, testi di P. D., Lorenza Trucchi, Enrico Crispolti, catalogo, Genova 1995); di Mirella Bandini (numerose monografie di artisti che attraversano il dopoguerra e gli studi sulla critica, in Arte a Torino 1946-1953, catalogo, Torino 1983 e nel recente Le arti visive in Piemonte-1945-1952, Torino 1999); di Francesco Poli (ricordo almeno il saggio «Arte a Torino 1946-1947: qualche considerazione sul vecchio e sul nuovo», nel citato Arte a Torino, e l’appena uscito studio sulla vicenda de «Le arti figurative» a Torino dal ’45 all’80 nella einaudiana Storia di Torino, Torino 1999; di Marco Rosci, soprattutto monografie, sempre storicamente fondate; i repertori e gli studi monografici sullo specifico della scultura redatti da Alfonso Panzetta; le ricerche sul Museo Civico d’Arte Moderna, di Rosanna Maggio Serra, Riccardo Passoni (in particolare su Le arti visive, op. cit.), Maria Teresa Roberto nel citato Arte a Torino; di Giuseppe Mantovani sull’Accademia Albertina in Le arti visive, citato, e la serie di mostre con relativo catalogo che con il titolo complessivo di «La scultura segreta» (v. tav. I) – Valeria Ciotti è stata coinvolta nella terza edizione – illustrano la scultura in Piemonte di questo secolo.
Ma ritornare sull’argomento, per così dire dal punto di vista di un giovane scultore in via di formazione, non mi è parsa cosa ripetitiva, anche quando la maggior parte dei dati fosse già nota (ma quanti punti ancora da chiarire!).
Una serie di considerazioni sulla scultura sembreranno generiche e comunque, data la scarsità della documentazione specifica e delle testimonianze dirette, non esclusivamente riferibili alla giovanissima Valeria Ciotti. Tanto vale che enunci un principio, opinabile, cui mi sono attenuto e che personalmente mi convince, del resto già suggerito nel testo: esiste un ragionare l’arte che non passa che marginalmente attraverso la parola, che raggiunge chiarezza, se la raggiunge, solo nell’operare. Lo si concede agli artisti «maggiori», lo si nega agli altri, senza rendersi conto che non esiste nulla di artificiale che non abbia ragioni, e che queste ragioni, spesso appena intuìte, stanno nelle cose e che il tentare di metterle in chiaro non è tradire la storia, piuttosto coglierne costanze e persistenze che attraversano le circostanze. Se esiste la scultura – il linguaggio della scultura –, per esempio, ci saranno dei problemi comuni che affronterà tanto il grande che il piccolo piccolissimo scultore, l’antico e il moderno, qui e in un qualsiasi altrove; ovvero, la scultura esiste in quanto esistono dei problemi comuni a un certo tipo di persone che si relazionano a un certo tipo di operazioni. Le varianti epocali, di cultura, di gusto ecc. non soverchiano, tanto meno annichiliscono le costanti. Un esito convincente merita di essere considerato per la sua originalità non meno che per la sua normalità.