Pittura

Monica Mantelli ha esaminato l’intera produzione trentennale di oli di Valeria dandoci suggestive interpretazioni psicoanalitiche dei fili conduttori del suo produrre e anche una convincente analisi della non appartenenza del suo stile ad alcuna corrente artistica a lei contemporanea.

La Mantelli si è fortunosamente ed efficacemente sostituita nell’esame critico di questo settore a Francesco Lodola che ne aveva inizialmente assunto l’incarico, poi lasciato per ragioni esterne alle nostre comuni volontà. Sono però riportati gli immediati ma penetranti e raffinati commenti ai singoli quadri che esaminò fino a quel momento, quale prezioso contributo alla scoperta della composizione e dello spirito delle opere.

INDICE degli argomenti

Il pensiero e l’anima portante | di Monica Nucera Mantelli |
Brani di un esame critico | di Angelo Ciotti |


Il pensiero e l’anima portante

| di Monica Nucera Mantelli |

Premessa

Leggere e osservare i molti quadri che fanno parte dell’opera di Valeria Ciotti a casa del fratello Angelo, mi ha portato a cercare di intendere quale sia il profondo seme, il pensiero portante del suo filone pittorico. O meglio ancora, qual è la somma dei segni e delle «storie» che lo comprendono.

Nel fil rouge della pittrice, le simbologie affrontate, i soggetti che vanno e vengono dalla produzione dei suoi lavori – eseguiti tematicamente in un movimento oscillatorio – ritrovo un stupefacente rincorrersi di fiori e foglie, di paesaggi di terra e visioni mistiche, di donne e pianeti, angeli e vele, alberi e marine raccolti in una rassegna di sapore emozionale che tocca il figurativo, poi il lirico informale e infine l’astratto.

Lungo l’arco produttivo dell’artista, le matrici care all’inconscio collettivo (la donna, il mare, la terra, il viaggio) maturano e progressivamente abbandonano i vecchi schemi figurativi per affrontarne di nuovi, di certo non meno affascinanti. Un esempio tra questi è il tema della barca a vela, che compare negli Anni Settanta in Fiamma-vela, 1975, si declina al «raddoppio» in Diffrazione, 1981, e matura sino a diventare vascello informe, eroso dalle intemperie, nei primi anni Novanta.

Nella pittura di Valeria Ciotti, dopo i primi oli della seconda metà degli anni Sessanta, appaiono immediate le sue attrazioni verso i cinque elementi: Aria – Terra – Acqua – Fuoco – Etere, intendendo per quest’ultimo l’essenza, lo spirito, l’energia aurea del vivente.

Questi, chiamiamoli «proto-ingredienti», si rivelano – scanditi nel tempo – dal sempre più sapiente uso del colore, piuttosto che dalla intenzionalità della forma e diventano, nell’arco dei trent’anni di produzione dell’autrice, le semine portanti del suo discorso artistico. Un abaco ripetitivo composto dagli elementi primordiali che muovono e animano la Natura. Una natura ri-creata e riproposta con modalità artistiche che facilmente rimandano a un messaggio profondo, e dunque interessanti anche dal punto di vista di un’interpretazione psicoanalitica, oltre che pittorica.

Sappiamo che la psicoanalisi ha introdotto nella lettura e nella critica dell’opera d’arte una modalità di comprensione fondata sull’analisi dell’inconscio e dunque di una comunicazione che si svolge al di là di ciò che appare. L’approccio interpretativo di questa ipotesi di percorso si basa pertanto sull’analisi dell’intreccio di relazioni tra realtà esterna (quella palesata pittoricamente dall’autrice) e quella interna (proposta attraverso la ripetizione di moduli, archetipi, simboli e modelli di affermazione e negazione che risuonano nell’arco di tutta la produzione artistica).

Evidenti sin dalle primissime opere i tagli visivi «barrierati» della Ciotti, operati attraverso finestre o ingabbiamenti e reticolati, segnalatori di un desiderio di «guardare attraverso» o «al di là di». Una peculiarità che nasce già dalle prime opere, come il suo sguardo rivolto oltre il vetro di una finestra, Piazza Statuto, 1965 |Oli•001| prosegue in svariate proposte figurative, come in Reti-coli, 1966 |Oli•006|, e si allegorizza in lavori successivi come Nudo orientale, 1975 |Oli•045|.

Cito poi, a riguardo dell’uso degli elementi, la trattazione dell’aria presente nei Voli, oppure nelle scene ove il vento è protagonista. L’uso dell’aria-luce tipico delle albe nate intorno al 1967 es. Alba sul mare |Oli•012|, oppure dell’acqua – che unisce e separa – propone alla Ciotti un occasione per lo sviluppo di sdoppiamenti – identificazioni – fusioni.

Tali registri d’immagine e di significante-significato, sono altresì evidenti nei lavori sui riflessi marini degli anni Settanta. Acqua e terra si ritrovano poi nei quadri dedicati agli specchi d’acqua e riproduzioni di cerchi sull’acqua, come in «Trasparenze», 1967 (fig. 1). La solida, rassicurante terra viene proposta anche nei paesaggi immersi nel verde, capaci di accogliere splendide case dai rimandi vangoghiani oppure supporta con l’acqua il raddoppio e la duplicazione di immagini su laghi, stagni, boschi fiabeschi o più velatamente inquietanti. Menzionerei poi l’albero, simbolo di rapporto tra terra e cielo, più volte adoperato dalla pittrice, e – a mio parere – un’indicazione dell’energia maschile, evidente in molta della sua produzione. L’energia maschile che si palesa nella pittrice è particolarmente ben espressa nella trattazione visiva e simbolica del fuoco: nel tema ricorrente del sole o dei pianeti. Il fuoco – potente demiurgo – appare nella sua energia ctonio-luciferina, nel quadro Fuochi notturni, 1967 |Oli•009|, e diventa – per citare Marguerite Duras, scrittrice tanto amata dallo psicoanalista Jacques Lacan, un «detruit-dit-elle» nelle sagome astratte di carcasse di legno bruciato dei relitti iconici, tra cui i due oli del 1992 «Spartacus n 1» (|Oli•149|) e «Spartacus n 2» (|Oli•150|), il «Senza titolo» del 1993 |Oli•162| e «Senza titolo (vascello)» del 1993 |Oli•161|.

Si guardi dunque alla produzione artistica della Ciotti non come a un semplice riflesso sovrastrutturale di una condizione sociale ed economica, ma come alla venatura emotiva  inconscia di un’artista che ha fatto della sua pittura il palesamento di un percorso interiore. Una sorta di svelamento dell’inconscio, dove il suo carattere forte, impetuoso, ma altrettanto delicatissimo, si esprime nell’intimismo, attivando una modalità di comunicazione fatta di «finestre sul profondo», osservabile in chi cerca una tavola di confronto quotidiano con ciò che è Altro da sé. Il Sé espanso in pittura di Valeria Ciotti prospetta tonalità simbolico-sensoriali che fanno pensare al concetto di ciò che è oltre il pensiero logico. Esso evidenzia il dibattito tra luce e ombra, quello tra maschile e femminile, tra ying e yang. Una produzione interessante dunque, nella scala della ricerca personale, sia essa mistica o psicanalitica. Ed è questo forse uno dei motivi per cui ne sono rimasta attratta.

Soggetti

Importante nella trattazione dei soggetti scelti da Valeria Ciotti il lavoro tra luce e ombra già evidente in uno dei primissimi quadri – «Autoritratto», 1966 (fig. 2) – dove il soggetto Fiore (papavero) «galleggia» tra buio e chiarore nell’aria e intorno al suo viso. Lo stesso fiore «papa-vero» (vero papà, vero padre, magari un Padre meno «Legge» e più Libertà, più Volo?) viene riproposto immerso nel blu oltremare di Papaveri nell’acqua, 1974 |Oli•076| e quasi come sanguigno elemento grafico in Paesaggio astrale, 1971 |Oli•049|.

Se osserviamo il rapporto spazio-volume attivato nelle sue impostazioni sulla tela, è evidente il senso di concessione alle grandi estensioni, al senso di respiro, alle spaziature dedicati al tema della «visione». Una visione portatrice di un messaggio. Una sorta di vibrata illuminazione (ovvero quasi di canalizzazione di uno stato d’essere di cui lei è mera portatrice) percepibile nell’interpretazione del mondo di riferimento, come in Anima Mundi, 1968 |Oli•022| oppure nella gestione del mondo totemico, come nel monolitico Budda, 1969 |Oli•023|. Tale senso di visione percettiva di un mondo altro prosegue nella trattazione dei caldi meriggi e paesaggi degli anni Settanta, si sviluppa nelle pastorali degli anni Ottanta e si conclude nelle «Composizioni» degli anni Novanta.

Per evidenziare la messa a fuoco della visione propongo, tra i molti, due lavori del 1974 Paesaggio al sole 1 |Oli•074| e Paesaggio al sole 2, fig. 3) che raccontano di tetti e case, attraversati da un sole che emerge imponente e una suddivisione delle tele in due parti, ove la firma è semi centrale. Attraverso tale suddivisione, la Ciotti cerca una linea guida che offra equilibrio alla trattazione del soggetto, mentre il sole abbraccia il muro, o ridosso che sia. L’effetto che se ne ha è pari a quelle visioni che si hanno d’estate quando fa molto caldo. In inglese si direbbe blurred. Il riverbero del calore, a occhi socchiusi, rende l’immagine tremolante, quasi sfocata, con un effetto etereo, non ben definito, vaporizzato. Questa soluzione tecnica ritorna più volte nelle visioni/miraggio della pittrice.

Con la serie Cromo-semine – partorite intorno al 1975 – il colore, già così protagonista, viene acceso in tutte le sue più provocatorie rifrazioni di luce. Nelle tele sui pianeti, il sole, la luna e il mare, il colore arriva spesso a sostituire in toto la forma. Detto questo, la gestione delle forme da parte della Ciotti prende sovente spunto dalla tecnica di stesura morbida, a tratti materica, del colore – come nella trattazione dei paesaggi espressa già negli anni Settanta e poi ripresa nel rocciforme dettaglio intorno al 1990 con la serie «Glendalough» e «Stones» del 1993.

Lo studio approfondito di simboli concettualizzati come l’angelo – energia o essere zoomorfo –, o come il vascello, che dalla vela passa ad essere relitto, diventa anche un’occasione per analizzare il significato delle identificazioni e i «raddoppi» eseguiti in gran parte dei lavori. L’autrice ricrea, attraverso l’uso dell’acqua o della suddivisione dei piani di lettura, un effetto di sdoppiamento delle forme. Le forme che si duplicano sono simili ma mai uguali all’originale. Pertanto, in questo trattato, li definirò «duplicanti».

Gli effetti duplicanti sono chiaramente individuabili nei quadri dedicati alle «marine» e alle «ondine» (così chiamate dal fratello della pittrice, Angelo), dove l’elemento liquido propone giochi segnici e cromatici a pelo d’acqua, e offre spunti per ricreare nuovi divertissement. In altri quadri la Ciotti dichiara apertamente il raddoppio e la duplicazione e gioca con i riflessi come in Albero-foglia del 1974 |Oli•077|. Altrettanto si può dire di quelli in cui la duplicazione dell’immagine principale offre una nuova interpretazione del tutto, ad esempio in Fiamma-vela, 1975 |Oli•095|, oppure dove la fiamma si affianca surrealmente all’albero, come in Alba sugli alberi, 1992 |Oli•151| e ancora nelle scomposizioni tonali astratte, presenti lungo tutto l’arco produttivo e particolarmente evidenti, come già detto, nella serie «Composizioni».

Molto significativo nella Ciotti è lo sviluppo dei soggetti abbinato al colore: osserviamo come la pittrice sostiene tecnicamente (attraverso lo svisceramento del segno-colore) il tema albero – rendendolo evocativo ed interessante nella sua lettura grazie alla costante ricerca di abbinamento tra colore, gesto libero e tratto pensato. Ne esistono decine di versioni, tutte significative.

Infine, propongo nella lettura di questi soggetti il gioco tra significati e significanti, espressi ovunque. In modo particolare nei nudi, nel mare, nei tramonti, l’artista fa scaturire «inconsciamente» messaggi di rinascita sin dagli anni Sessanta, giungendo nell’astrattismo degli anni Novanta, a rappresentare la sua anima divisa tra gioia dichiarata (vedasi le «Fantasie») e turbamento indicibile (i quadri come appunto «Senza titolo»).

Già in «Pioppi in autunno» (fig. 4) lavoro del 1968, emerge la tendenza dell’artista a tener fede alle «radici», ovvero alle matrici dell’inconscio collettivo, e a scegliere soggetti precisi. Pur trattandosi di un paesaggio, sono già presenti i tre elementi fondamentali che caratterizzeranno la sua produzione futura: la calata della luce che emerge e/o eleva verso il cielo, l’immissione della simbologia duplice del sole e della luna (luce-ombra), e la scissione/suddivisione delle forme che si frantumano in puzzle caleidoscopici offrendo, grazie alla frammentazione, la vera fuga dal quadro, e dunque della scena.

Infine, tra i soggetti trattati con maggior enfasi troneggia la pienezza meridiana (per citare Albino Galvano) degli opulenti nudi femminili, e le donne dei ritratti, più ampiamente trattati nel capitolo 10 (Simboli e archetipi).

Il gesto e il tratto (lo stile)

Dicevo poc’anzi che lo stile delle opere dell’autrice è testimone non tanto di segno o struttura, ma di un messaggio, come si mette in luce più avanti in questo scritto. È evidente in questi quadri un rimando a correnti artistiche di periodi precedenti: Felice Casorati, la Scuola Romana, persino i Fauves e gli Impressionisti. E allora, perché la Ciotti ci interessa tanto pur proponendosi in stile così rétro dal gesto segnico e di tratto in uso da artisti del suo nucleo generazionale? In quegli anni in Italia infatti si affermavano nuove sperimentazioni di messaggio e di segno formale, come con l’Avanguardia.

Una risposta possibile è espressa, a mio parere, nella raccolta antologica di questo catalogo, dove si evidenzia il taglio psicanalitico-mistico della produzione della Ciotti. Passando lo sguardo da un quadro all’altro salta all’occhio il sistema allegorico, il codice, testo e struttura pittorica di questa artista che ha elaborato alcuni modelli portanti della nostra cultura con grazia e forza. Lo ha fatto, a parer mio, in virtù di un palesamento iconico delle nostre immagini primordiali (archetipi) rese più familiari e vicine grazie all’utilizzo di modalità compositive naturali, appartenenti al quotidiano. In particolare, le pose delle figure femminili sono semplici, desunte da momenti di raccoglimento, pensiero, riposo.

Tutto il lavoro risulta comunque attentamente studiato sul piano degli equilibri compositivi, con riprese e sovrapposizioni di tematiche di sempre attuale interesse (la nudità, il «veleggiamento», l’astrazione simbolica) che riusciamo ad apprezzare nella sua interezza grazie ad un attento lavoro di recupero e catalogazione svolto dal fratello Angelo.

Più di tutto, per la Ciotti il linguaggio è sedimentazione. Il tempo, per lei, come per Marguerite Yourcenar, è un grande scultore, e questo si afferma nella crescita di uno stile sempre più concentrato ed essenziale. A ciò si può aggiungere che il riscontro emotivo sulle sue opere è stilisticamente «sedimentato» sul piano sia tecnico (utilizzo delle pennellate e spatolate, della stesura degli oli) che creativo (scelta dei soggetti e accostamenti dei colori sempre più maturi e asciutti).

Questo processo di sedimentazione stilistica offre degli spunti interessanti per capire quali sono le codifiche dell’anima. Proiezioni di autentici moti dell’intimo, dunque, atmosfere. Entità pittoriche gravide di energia, pregnanti di significato. Riconoscibili, nella loro interpretazione del vissuto, in ogni punto della sua produzione. Espressioni del suo patrimonio emozionale, che entrano in risonanza con quelle di chi guarda le sue opere. Empatie.

Mettendosi in ascolto con la sua interiorità l’autrice ha intrapreso un percorso «analitico» che passa dalla scultura alla pittura, oggettivando dinamicamente sulla tela quel grande fiume che è la sua storia, il suo vissuto personale. Evidente la pressoché assenza di figure maschili nella sua produzione, quasi a esorcizzare l’assenza (interiore) di una figura «rassicurante» del padre. Si potrebbe ardire a pensare che la Ciotti sia sfuggita alla legge del padre, sposando la pittura dopo la forzata richiesta di abbandono della scultura da parte dello stesso.

È pertanto più facile capire come, in ogni sua opera lei abbia in qualche modo stigmatizzato un singolo istante di un avvenimento «profondo», si tratti di un’accoglienza materna, di una familiarità riservata, di una solidità o di una oscillazione – contorcimento reticolare del suo mondo interno.

Lo spettatore può osservare, da questa semplice analisi degli stilemi portanti, come questi quadri, eseguiti con semplicità e armonia, risultano convincenti e coerenti perché persino i più astratti sono sostenuti da una struttura segnica accuratamente pensata, «digerita» e rielaborata. Il disegno di base, struttura, linee e curve raffinatamente progettate dall’occhio della mente, creando uno stile di pittura altamente decantato, riconoscibile ed autentico in ogni suo tassello iconografico.

È un mood di stile suggestivo, simbolico. A volte sognante. Di profonda astrazione lirico informale, ove i tagli scenografici risultano inediti e insoliti. Per concludere, un tratto alfabetico di grande appeal sensoriale.

Molti di questi lavori hanno una matrice di frammentazione, quasi di suddivisione iconoclastica. Non potrebbe essere altrimenti. È l’ago della bilancia da cui si diparte l’ossatura architettonica della sua produzione. Sovente essa funge da asse portante del quadro: può celarsi dietro la linea di una colonna vertebrale per un nudo di schiena, può essere il fascio di rami esteso verticalmente nei paesaggi, può ancora trattarsi del fascio di luce che nasce da una fonte d’acqua. In questo modo l’artista contiene sempre le forme che crea, abbracciandole pur nel loro volo.

È da questi assi portanti che si dipanano le trattazioni metonimiche dei suoi messaggi pittorici: le «suture» citate da Francesco Lodola, le «cesure – unioni» individuate da Manuela Cusino. Esse sono esaltate da una sorta di vento che accarezza le forme, i colori violenti, mai freddi, ponendo sul piano della lettura di chi le osserva il principio primo e la forza attiva in grado di accenderne il cromatismo vivace e ritmico.

Cito a riguardo un lavoro del 1986, «Alberi» (fig. 5). Un albero della vita, un rifugio, un legame con tutte le cose, che attinge la sua base da un canale dall’acqua non blu ma rosa, ove i rami si aprono a triangolo e le fronde sembrano braccia aperte, pronte ad accogliere chi guarda. C’è un’atmosfera di accoglienza e di canto dell’anima. Il sole, che emerge dalla foschia e in corrispondenza della centralità superiore del quadro, pare colare lapilli infuocati. Vi è la citazione di un’alba, un lirismo che troneggia nell’epoca del ricordo.

Anteriore un quadro del 1972 con l’accenno di un roccione rosso, di taglio sperimentale: «Monoliti» |Oli•055|. Lo cito perché segna una deviazione di percorso: le forme infatti sono dure, aspre, ferme, passive. Diverse dalle curve morbide e attive da lei più ricercate.

Significativa del passaggio stilistico dal figurativo all’astratto è poi la serie realizzata tra gli anni Ottanta e Novanta con «Composizione», «Sinfonia», «Paesaggio», oppure «Senza titolo (Fiore)» del 1993 |Oli•159|. Infatti, dal 1993-1994 i lavori della pittrice hanno decisamente una impostazione più astratto-informale. La Ciotti si dimostra in questo ultimo periodo leggera e materica nell’utilizzo del bianco, a cui arriva dopo molti anni di lavoro con l’olio. Il bianco utilizzato è un bianco atto a coprire i colori sottostanti, a dar luce piena e gravitante, e a far emergere dal suo calendario di colori una forma precisa. È un bianco che assorbe tutti i colori. Il bianco dell’ascesa, oppure della «copertura».

Forma e pensiero

Guardiamo ora al Budda del 1969 (tav. IV), un colosso totemico, dal codice identificato e tangibile. Può piacere, può inquietare. È un elemento duro, chiuso, geometrico, e dunque desueto per questa pittrice. Sintomatico del disagio a trattare la forma in termini di chiusura, questo totem primario rappresenta la forma, il contenitore. È il soggetto forma-pensiero di un quadro che anticipa il rapporto tra significato e significante, tra solidità e ancoraggio a certezze ancestrali, quali quelle legate ai monoliti (per es. le tradizioni druidiche di Stonehenge). È anche il simbolo del silenzio, del «taciuto», di ciò che non dichiarandosi può far paura. Più solitamente però la Ciotti ha altri interessi, vuol lavorare sul contenuto e dunque questo quadro rimarrà un prodotto sporadico della sua creatività.

Per l’autrice la forma esterna dunque normalmente risulta veicolo dell’espressione del contenuto interiore. Uscendo dal figurativo, il pensiero formale espresso nei soggetti trattati a partire dagli anni Ottanta palesa tale scelta. Ancor più evidente l’elaborazione e l’abbandono della forma intesa come figurativa nel periodo produttivo dal 1990 al 1994. Nella forma-colore degli ultimi anni, traslata dai suoi aspetti più sognanti, la Ciotti riproduce gli aspetti più intimi della sua pulsione interiore (vediamo «Volo» 2, 1985, fig. 6, attraverso il quale si avverte la sua tensione a una fuga e ancora nelle varie versioni del «Vascello», quasi una metafora biografica dell’avvicendarsi della sua tempesta emotiva che la attraversava in quegli anni).

Da un lato la Ciotti sembra quindi voler inscrivere formalmente i sentimenti, l’imprendibile, l’ineffabile, l’intimità del momento. Dall’altro, pare spinta ad andare oltre, anche in maniera ironica, attraverso le scelte cromatiche, superando l’effimero e il confuso della sensazione, per poi ordinare e chiarire la forma sulla tela. Tutto questo con l’aiuto di un dosaggio intelligente del colore, strumento che ha sempre accompagnato senza mai tarpare l’ala ispiratrice di questa artista.

Paradossalmente, uniti ad un forte riferimento al volo, all’angelo, alla leggerezza e fluidità, acquistano ruolo essenziale le rocce, le case, i tronchi d’albero e quanto è massiccio e solido, in grado di determinare linee geoformi e radicate alla terra. Masse e piani vengono messi in rilievo da linee che scandiscono i quadri, mentre le varianti del suo «Sole» marino riportano tutte i colori dell’Adriatico, dove l’aria da asciutta e trasparente si dipana in ondate flou o cangianti.

La natura tenue, mite, sottile, a volte silente della pittrice non nega l’elemento ironico e di sfida ad una lettura più profonda che si denota in molti dei suoi lavori, dove la ricerca formale è più evidente. Si pensi al tema dell’albero in «L’Albero rosso» del 1973 |Oli•062|. Uno tra i tanti ritratti è un acquarello Sarah Harvey |Acq•ritratti07|, dove si esprime non solo la bellezza ma anche il senso dell’impermanenza della giovinezza, significata dalle colature e dagli slabbramenti del colore.

Altro lavoro singolare è l’olio Ritratto di Ornella Serra, 1977 (fig. 7). Confesso di aver pensato, a primo impatto, che si trattasse di un autoritratto, per via dell’espressione così piena, ridente e determinata degli occhi e dalle labbra volitivamente socchiuse del soggetto. Ho compreso attraverso quel quadro ciò che in molti saggi critici avevo letto in passato: la sottile mimesi che può scaturire tra autore e soggetto dell’opera. La mano pittorica ha trasferito l’essenza, l’anima, la personalità di Valeria (l’artista) pur rimanendo fedele all’identità formale verso Ornella (la persona ritratta).

Questo lavoro è utile per parlare, seppur brevemente, del tratteggio «penetrante» del carattere di Valeria Ciotti. Un’artista dalla personalità complessa, che convive tra forma e pensiero con quell’atteggiamento pragmatico ereditato dalla tipica tempra emiliana che l’ha generata e la capacità di dissertazione pittorica su temi anche delicati, come quello degli angeli, che la sua sensibilità femminile le ha concesso.

Questo capitolo dedicato alla forma-pensiero si chiude con un’ultima osservazione che riguarda l’artista. Essa, pur consapevole dei movimenti e delle correnti storico artistiche del suo tempo, ha voluto esprimere attraverso la ricerca della forma (sviluppata anche grazie ai volumi del colore) qualcosa che poco aveva a che fare con il percorso pittorico a lei contemporaneo. Ha desiderato piuttosto raccontare il percorso della sua anima «inconscia», e non un avvenimento estetico correlato a correnti o movimenti artistico-storico-sociali.

Sul contesto storico della Ciotti e sul suo distacco da esso ha parlato più diffusamente Pino Mantovani nel saggio qui presente dedicato alla produzione scultorea. Il prossimo capitolo è dunque riservato ad alcune riflessioni sul suo modo di operare in campo pittorico e sulle tematiche iconografiche emerse, precisando che la lettura di tali lavori passa esclusivamente attraverso mie personali esperienze di indagine psicologica, analitica e spirituale.

Identificazioni e duplicanti

Qualcuno diceva che le vie della creazione sono tortuose, e ancora più quelle della svelazione (togliere i veli, le maschere) ovvero di ciò che si denuda nel campo della folgorazione e della compiutezza dell’azione artistica. Sappiamo che la ricerca di un’identificazione tra l’artista e l’opera è travagliata. Specie se l’artista in cuor suo vuol far parlare sulla tela l’anima mundi, ovvero l’anima che muove il mondo: l’inconscio collettivo.

«Illuminare la profondità del cuore umano è il compito dell’artista» rammentava ai suoi allievi Schumann, musicista e uomo di pensiero che ha capito il senso del ritmo figurativo e la sua capacità di rivelarne i segreti a chi ha la capacità di ascolto. In modo analogo la Ciotti, unendo sensibilità musicale e pittura, ha svelato la sua anima nei quadri, ponendo a tratti un ritmo musicale classico, come quello del russo Khacaturjan.

Se andiamo alla ricerca di identificazione e duplicanti, scopriamo che la pittrice ha fornito molte occasioni di riflessione in tal senso, in una ricca produzione di oltre cinquecento opere tra oli, acquarelli, disegni e grafiche capaci di sostenere un utile confronto con il lavoro stilisticamente più attuale dei più affermati coetanei dediti alla stessa passione tra gli anni Cinquanta e Novanta. Questo non è un aspetto trascurabile, poiché può succedere che gli artisti cadano in argomentazioni intimiste e ripetitive che vanno a scapito della qualità artistica e dell’impatto finale del risultato. Per Valeria Ciotti non è stato così. Anzi.

Riprendendo il concetto hegeliano per cui la verità non ha fretta, ciò che riusciamo a leggere nella carrellata cronologica delle sue opere è la solida cifra di una lunga stratificazione di opere ad olio rappresentative di stati d’animo di disgregazione/aggregazione e di dissacrazione/sacralità che nel tempo si rivela essere la voce parlante di un’anima dibattuta. Un’anima che si specchia, si guarda, si frammenta e si mette in discussione davanti a codici formali già storicizzati. Ed è grazie alla sua capacità di elaborare «linguisticamente» il principio identificativo e duplicante della sua parlata pittorica che la Ciotti nutre e supera quel codice pittorico che Paulucci a Torino aveva accudito e che alcuni grandi, come Chagall e Matisse, nonché gli Espressionisti tedeschi, le avevano oniricamente suggerito.

È ancor più evidente quindi, nella produzione artistica dedicata all’identificazione con il femminile, l’attrazione di questa artista verso la comunicazione di ciò che avviene nell’interiore, nell’intimo.

All’uomo spetta l’agorà, la piazza aperta. Alla donna il mondo interiore, abitato dalle calde atmosfere dell’intimità. L’atmosfera non è mai limitante quanto il contenuto, poiché l’artista donna, meno intrappolata dal linguaggio/idioma dominante dell’agorà, spesso racconta molto di più di ciò che è inscatolato in un modello sociale «pubblico» e dunque riconoscibile.

Va detto che la storia personale di Valeria Ciotti è anche corredata da una figura materna che viene citata e proposta in più versioni, comprese quelle identificative, divenute spunto importante per la trama e l’ordito del suo prodotto pittorico.

A rassegna delle identificazioni e dei duplicanti ecco alcuni esempi. Il primo è Preghiera sull’acqua del 1971 (fig. 8). Qui la pittrice suggerisce l’idea di una donna in preghiera, che si duplica nello specchio d’acqua e vede ciò che normalmente più sfugge all’occhio umano: l’altra parte di sé, l’Essere.

Si palesa, in quadri come questi, la dicotomia tra l’Io e l’Es, tra l’Ego e l’Anima, tra la personalità e l’essenza spirituale. Osserviamo poi il quadro Vele di bolina del 1975 (fig. 9), dove si presenta una vela frontale, e la sua duplicazione ad opera della luce e dell’acqua, elemento purificatore. Anche qui, come in molti altri suoi lavori, è il Doppio che restituisce l’identità perduta, l’anima autentica dell’oggetto stesso. Ritengo più stimolante non proseguire con suggerimenti di ulteriori «letture», ma lasciare a chi guarda questi quadri la libertà della scoperta di molti altri duplicanti e identificazioni.

La fase dello specchio

Passiamo dunque al Leitmotiv, al motivo conduttore dei lavori della Ciotti. Sovente esso è alimentato dall’operazione di duplicità di riproduzione del soggetto, ora nel suo originale, ora nel suo specchio. Una Eco apprezzabile sia dal punto di vista psicoanalitico che spirituale, se vogliamo. Viene alla mente «Ottica», uno scritto di Leonardo da Vinci in cui il Maestro spiega che in tutti i luoghi in cui il sole vede l’acqua, anche l’acqua vede il sole, e in ogni sua parte essa può offrire all’occhio l’immagine del sole. Vi è, dunque, in ogni soggetto della natura la possibilità di fruire o di fungere da specchio. E questa possibilità l’artista l’ha proposta.

Esistono più modalità per vedere le cose, e la Ciotti esprime queste possibilità in pittura.

Grazie a questa consapevolezza di fare o essere specchio, la pittrice ci fa vedere le cose da molti punti di vista, compreso quello dello stare sott’acqua e guardare verso il pelo d’acqua i movimenti e le forme che si creano controluce, come nella serie sulle piccole onde riflesse, denominate «ondine». Altrettanto si può dire nei soggetti ambientati al mare, per es. Vele |Oli•093| del 1975 ove, nonostante un evidente rimando all’opera di Paulucci, la vela si specchia nell’acqua e su se stessa circondata da un abbraccio di luce che rifrange e si fonde con il tutto.

Questa consapevolezza della pluralità di vedute nella cosiddetta «fase dello specchio» appare nella trattazione di diversi soggetti. Si osservi Fiamma-vela (fig. 10) del 1975, in cui lo sdoppiamento passa da vela a fiamma di candela che spande la sua luce: un irradiamento forte ed evidente, lavorato sino a divenire altra forma, che non è semplice assenza di ombra, ma irraggiamento di luce, quasi pari a un alone mistico. Il senso di serenità domina questo quadro in un flusso costante di musicalità silenziosa. Una duplice fiamma. Parliamo poi della scansione che parte dal centro del quadro, dunque un’ulteriore operazione di sdoppiamento. Sembra quasi alimentare l’immagine di un geyser che emette matericità lavica. Sono evidenti i lapilli di un fuoco, di una fontana calda, dai mille colori. Una fonte centrale bassa che si apre a raggio e ricade sul terreno. L’effetto, pur cromaticamente intenso, non appesantisce l’entità del soggetto del quadro. La Ciotti qui utilizza non solo cromie calde, ma anche tonalità di azzurri e verdi, che offrono respiro e senso di riposo.

Si guardi ancora ad un altro lavoro dalle atmosfere surreali, a metà strada tra Magritte e Van Gogh. Si tratta di Sorpresa notturna, c. 1969 (fig. 11) nel quale è dipinta una casa che si riflette nell’acqua sottostante. La casa, specchiata su se stessa, risulta gioiosamente illuminata. Sembra quasi che stia andando a fuoco, tanto è bella. È notte, ma l’edificio si staglia netto e specchiato in una pozza d’acqua, visibile pur nel buio. Gli alberi che circondano la casa sono quattro, ignudi, rossi, e paiono fiamme.

Segnalo ancora un olio del 1973 «Sole (il tondo n 2)» |Oli•066| (v. pag. 144): su base rettangolare un corpo centrale ricorda una sfera nella quale coesistono decorazioni spiraliformi alla Dufy, tono su tono, commiste a colature di olio e slabbrature appena azzardate. Nel fondo vi è ancora una vena di sperimentazione. Sono tra i sette e gli otto gli strati di colore attorno a questo sole che va a immettersi nell’acqua verde – turchese che lo riflette. La parte superiore del quadro risulta più insicura rispetto a quella inferiore.

Del 1974 è Paesaggio al sole 1 |Oli•074| altro quadro estremamente dinamico, giocato sui rossi, ocra, arancioni. È chiaro il messaggio implicito nel lavoro stesso: dal sole nasce la luce e dalla luce nasce la vita, quindi il colore è forte, di una forza irruente, quasi che scotta, ricco di energia. Un fuoco.

Fondamentale, nella fase dello specchio, è la rottura dello stesso in più frammenti. Da questa frammentazione nascono quadri smembrati dal loro assetto figurativo classico, e assumono nuovi contorni iconografici, supportati dalle cromie potenti. La Ciotti è capace di evocare sensazioni forti grazie all’utilizzo frammentato del colore. Ed è proprio attraverso il Doppio, ovvero l’esaltazione della frammentazione tra spiritualità e entità carnale che esprime a tutto campo il protagonismo del colore, di cui ora andrò a parlare.

Il colore

C’è un tale incontro, un sinodo estetico, nel colore, in particolare di tutte le tonalità dei verdi, sul cui valore e significato non è possibile non fare una riflessione. Come per Kandinskij nella Ciotti l’utilizzo dei due colori primari che compongono il verde (il giallo e il blu) presuppone che il giallo sia facilmente acuto e mai troppo profondo. Il blu invece difficilmente può sollevarsi a grandi altezze. Mescolando questi due colori diametralmente opposti in un equilibrio ideale, si forma il verde e nasce la quiete. Il significato si trasforma grazie al colore. Proprio come una colonna sonora può modificare il pathos emotivo di un filmato.

Nei lavori coi Soli, il colore ispessisce l’aria che il quadro respira. Qui il fare della pittrice sembra governato sia dall’elemento visionario che dà una capacità di proiettare l’itinerario dell’anima attraverso la gestione delle cromie. L’uso del colore ricorda un Mentis Deum dantesco, ove persino l’aspetto non risolto della Vita, magari la stessa angoscia, diventa dichiarazione, messa a nudo tramite, appunto, il colore.

A tal proposito, un certo disagio langue in «Nudino verde» del 1968 circa (|Oli•021|): qui il nudo di donna (di un insolito verde bottiglia) è rannicchiato sulla sabbia in posizione fetale e non offre certo uno spettacolo di ozio salutare sulla battigia, quanto piuttosto di ripiegamento verso un silenzio occluso. La sensazione di un «male di vivere» passa proprio attraverso il colore, che copre, anziché esaltare, la nudità femminile. Un effetto da espressionismo tedesco, appunto. Un rimando ad un Sutherland rivisitato. In questo quadro si scarnifica il soggetto primario proprio con il colore, che non si ferma alla prima interpretazione e continua nella sua ricerca, evidenziando tagli particolari. Gli interventi lineari dei rossi diventano segni guida per la lettura del suo gioco: un gioco volto alla divisione-riflessione. È un quadro che ci induce a pensare.

Tra gli elementi ispiratori del colore, esiste il mare, suo compagno primordiale e archetipico (in francese il mare è femminile = la mer e la madre è la mère). Nell’artista vi è un’assonanza tra i colori più belli dell’arcobaleno, nelle predominanti di verde smeraldo e blu cobalto. Il verde lambisce paesaggi naturali, sempre assolati, quasi vibranti sotto la calura estiva. Persino l’analisi dei fenomeni luminosi sull’acqua, grazie alla scuola sul colore offerta dall’Impressionismo, traccia visuali che articolano percezioni instabili delle forme. Un’acqua verde e blu in movimento, con giochi di riflessi cari a Monet, dove la luce è mobile e ridente.

Gioiosi i contrappunti di colore offerti dai rosa, rossi e arancioni la cui struttura di sfumature e declinazioni è frutto di uno studio perspicace e attento agli equilibri. L’autrice, con la sua scomposizione del prisma e la profonda attenzione alle leggi dei colori complementari, esalta bellezza e poesia anche nei trattamenti dello sfondo. I fondali vengono stesi non in modo «pittoresco» ma intimo, attivando dunque il correlativo oggettivo delle visioni o situazioni emozionali che il soggetto primario – albero, vela, donna – incastona sulla tela.

La tavolozza, dicevamo, è calda di possibilità, ma il disegno non è mai contorto. Reticolato, frammentato, ma mai non individuabile. Non c’è definizione lineare nelle variabili di espressione figurativa. Mentre nei tagli prospettici e visivi l’impostazione rimane classica, quasi assente dall’esperienza fotografica, la collocazione dei soggetti è meno scontata. I tepori atmosferici dettati dal colore dei fondali ne alimentano la lettura in una chiave più iridescente e suggestiva.

A questa tematica si avvicinano i due quadri denominati dall’autrice «Composizione» del 1986 (figg. 12-13), ove si figura informalmente un albero scomposto attraverso il periscopio dei colori, lasciando sì che le forme si allarghino attraverso una lente d’ingrandimento. Pare un’entrata negli anfratti della luce caleidoscopica, capace di rimandare riflessi all’infinito. Qui la firma è data non tanto dal nome, ma da movimento di stesura realizzato con il pennello, nonché dall’impostazione architettonica del quadro, che trancia in più parti il soggetto.

C’è spesso fusione tra i colori, poiché Valeria Ciotti pone meno osservazione e più sogno. Un sogno vissuto dall’interno, attraverso l’occhio interiore.

Nei vasti spazi dove il colore si dilata, trova luogo l’ampiezza e la grandiosità che ci fa tuffare in atmosfere ben più profonde di quelle eseguite col pennello. L’autrice toglie ai soggetti un poco di quelle qualità che la Natura ha loro donato per proporre una lettura più profonda.

I ritratti rivelano l’intimo, l’essenza del carattere dei personaggi immortalati. Gli uccelli sono anche angeli. Gli angeli diventano pura Luce. La luce diventa acqua. L’acqua diventa forma. La forma diventa ondina, vela o fiamma. La fiamma diventa foglia, e la foglia, albero. I boschi sono fiabeschi o inquietanti. Il sole egizio è un inno a Osiride. I pianeti in genere paiono grandi fiori infuocati. I fiori sembrano mani. Le mani si congiungono in preghiera o attendono una risposta.

Luce e ombra

Dall’ombra emerge sempre la luce. In pittura notoriamente si aggiungono tonalità scure per esaltare le presenze solari. I quadri della Ciotti paiono vivere sia di visioni e meditazioni luminose alimentate da sferzate di colore vivace, compatto e raffinato, sia di proiezioni di angosce incombenti, come in «Notturno» del 1991 (fig. 14) ove un teschio presiede il corpo scuro centrale dell’opera.

Nel labirinto di questo arcobaleno di luci e ombre, che di per sé costituisce l’elemento più rappresentativo del soggetto dipinto, la Ciotti costruisce forme e volumi ulteriori rispetto a quelli figurativi, percepiti di primo acchito.

Il tono delle opere risuona ora sostenuto, ora delicatamente smorzato dalle giustapposizioni delle superfici luminose, come nel caso dei ritmi colorati dei molti lavori tra gli anni Ottanta e Novanta. Tutto, amplificato dalla luce che si respira in gran parte dei suoi oli, si sviluppa con crescente consapevolezza della sottile linea di equilibrio che giunge tra pieno e vuoto. L’ombra allora viene creata non tanto dall’assenza di colore, quanto dalla contrapposizione con tonalità più forti e segni informali che «spaccano» il racconto scenico dell’opera.

È proprio questo contrasto che crea spazio e fa apparire i lavori della Ciotti ben dosati nel rapporto luce-ombra. Nei suoi oli, le forme solide delle cose non arrestano la luce, ma ne sono attraversate e riempite, sì che i colori alti, brillanti, puri, sembrano accostati senza alcun riguardo accanto agli scuri ed ottenebranti.

Ancor più evidente che nella ricerca plastica delle forme è poi il concetto spazio – volumetrico della luce: il sole che tocca alcuni nudi pare ardente e fa maturare la pelle come pesche. La carnagione di questi soggetti dormienti (o quasi ipnotizzati da una trance) si impregna di questa radiosità esaltandone la natura generosa delle forme.

Per capire la radice di questa significanza rimando a un lavoro indicativo per il gioco luce – ombra, citato precedentemente. Si tratta di Papaveri nell’acqua, 1974 (fig. 15). In questo quadro regna un’atmosfera surreale, un senso di inghiottimento – galleggiamento dato dal blu scurissimo del fondale contrastante con il rosa delicato dei papaveri, che diventa idea dominante di un vortice sordo. Una metafora di appello. Una richiesta di aiuto. Un’invocazione di preghiera. Una pala rivisitata che verte ad una raccolta verso l’essenza primordiale: l’acqua. Come sua chiave di lettura costante, la scansione del quadro in due, in una divisione che raddoppia l’immagine, che par riflettersi su uno specchio d’acqua (forse fiume) da cui sgorga qualcosa. La suddivisione del quadro, espressamente in orizzontale, pare una recisione del cordone della rappresentazione, pur filtrata, della realtà. Essa definisce, a mio parere, il passaggio verso i moti più interiori, verso cioè quell’abisso definito come «spaventoso» da Kandinskij. Giungono poi sulla tela ghirigori che serpeggiano nervosamente. Un grafismo che diventa pittogramma. Intorno a questi segni il colore aumenta di sonoro, diventa fragoroso, sino ad esplodere.

Ma non sono da meno, e certamente lo spettatore attento non si lascia ingannare, dalle opere cromaticamente più intense. Non si tratta infatti di opere più «leggere»: persino nel caso delle impetuose e squillanti composizioni musicali delle tele dagli sfondi klimtiani o di atmosfera surreale, come in Gita sul lago Maggiore 1 del 1970 (fig. 16).

Se affrontiamo il tema luce e ombra, vediamo che l’evoluzione della Ciotti parte da soggetti già presenti nell’immaginario collettivo (barca, sole, albero, donna) sino ad arrivare a forme di nuova realtà (metafore astratte) attivando un codice che passa attraverso prove tecniche e sperimentazioni varie del rapporto con la luce, o con il buio.

Su questa sua ricerca si fonda un legame tra colori e linee indipendenti che vivono armoniosamente nella totalità del quadro. Si osservi «Composizione: il vento», 1981 (fig. 17). In questo quadro vi è una presenza di pittogrammi e di voli di possibili angeli o uccelli arancione-rosa, ma è la base che va osservata con attenzione: essa propone infinite sfumature dal verde smeraldo al blu cobalto. Una significanza cromatica importante. In alchimia tutto il senso della ricerca si chiosa in una breve frase scritta su una pietra preziosa: questa pietra è lo smeraldo. Il color smeraldo utilizzato dalla pittrice è lavorato sperimentalmente, anche a slabbramento, ovvero a dilatazione di apertura. Scaturisce in questo quadro un senso di vita pulsante, forse a livelli «superiori». Probabilmente offre un’opportunità di attivare una sorta di ricerca sul significato dell’esistenza stessa.

E ancora, del 1993, la lotta contro il buio in «Senza titolo» (fig. 18). Un lavoro ricco in scomposizioni del blu e macchie di colore che convergono verso il centro. I colori neri, grigi, blu alquanto insoliti per lei, propongono una visione disincantata, psichica. Un volo d’angelo nero. Domina un senso di tribolazione, di pesantezza, di percezione plumbea, in cui la pittrice cerca suo malgrado di mantenere le atmosfere leggere. Vi è invece un senso di catastrofica incombenza. I suoi riferimenti agli autori storicizzati qui si scardinano definitivamente, e tutto ha un sapore diverso. Le sue matrici colorate risultano meno presenti.

Già dai primi anni Novanta la Ciotti lavora sulla variazione del punto di equilibrio, che da linea si fa centro. Nascono quadri scaturiti non più da piani divisori ma da un’idea centrale (centrata) di spirale, con ritorni rotondi, persino nella chiglia di una nave («Vascello»), nelle venature in rosso che tagliano e muovono l’architettura dei quadri, («Strutture») ove ancora permea molta luce («Fantasie»), o l’immagine vista attraverso un vetro spezzettato («Stones», «Composizione»). Cambia il modo di trattare i soggetti, e conseguentemente il rapporti spazio-volume. Siamo davanti ad una nuova modalità pittorica, astratta, dove è più protagonista lo spazio, e meno il volume.

Rapporto spazio-volume

Facciamo un salto indietro e inquadriamo Valeria Ciotti nei primi anni Settanta. L’allieva dell’Accademia delle Belle Arti di Torino segue il corso di Enrico Paulucci e alterna le sue giornate torinesi alle permanenze estive verso il suo mare assoluto: quello che lambisce le spiagge di Riccione, uno dei suoi spazi immaginifici più fecondi per la sua produzione pittorica.

Già allora la pittrice è una donna fortemente alimentata dall’autonomia, dalla consapevolezza e dalla costante scelta verso una vitalità che il suo carattere di origine romagnola le determina. Partorisce dunque, nella sua indipendenza intellettuale, la libertà di approccio verso i valori ricevuti dalla scuola, permettendo a se stessa di metterli in discussione, criticarli, addirittura rifiutarli per poi staccarsene e cercarne di nuovi, apparentemente già visti, ma nella sostanza completamente rivisitati.

Tutto per la pittrice crea un suo volume nell’inconscio, ripropone spaziature calibrate e a più strati sui fondi della tela, fino a raggiungere quel carattere di distinzione e profondità tonale che emerge da ogni suo lavoro.

C’è qualcosa di pensoso e di fraterno che regna nella pittura della Ciotti. Quasi un muoversi nel respiro mistico di una awareness collettiva, dove i modelli interiori vengono «spaziati», ovvero significati sulla tela secondo precisi equilibri generati dall’esperienza pregressa della scultura.

La donna rappresentata è volumetricamente madre. Mammelle piene, fianchi opulenti, una solidità atta a proteggere e contenere. Per associazione d’idee mi viene da pensare al mare figlio dell’elemento acqua. L’acqua raddoppia, duplica e scinde (come nel caso delle Vele o delle Albe e Tramonti sul mare). L’acqua inoltre purifica. Cito il significativo quadro Preghiera sull’acqua, 1971 |Oli•043|, che crea nuovi mondi e nuove visioni (vedasi «Trasparenze», 1967 |Oli•011| e «Giochi di luce sull’acqua / Immersione», 1973 |Oli•068|). L’albero invece viene tendenzialmente rappresentato per offrire un rapporto più stretto con la terra. Esso è presente come essenza che muta e si rinnova nel tempo, oppure, quand’anche spoglio, offre preghiera e consolazione. La barca è viaggio, trasformazione, visione nuova. La roccia è solido mistero, forza attiva, come il ventre del nostro pianeta. Fuoco consolidato. I fiori e gli uccelli sono elementi decorativi, effimeri, straordinari. Spesso questi soggetti convivono insieme. A riguardo si osservi «Sul prato» del 1973 (fig. 19).

Sul tema spazio-volume si innesta la duplicità evidenziata dalle due facce che possono avere un unico tema, come per il sole e la luna (le due complementarità circolari che gravitano intorno al mondo del vivente) o per un soggetto singolo (vela, donna, paesaggio). Eppure, pur nel lirismo informale che accompagna una parte del suo lavoro, la Ciotti evidenzia negli anni una produzione sempre meno abbandonata al turbinio degli impulsi organici, quanto piuttosto alla serena disciplina degli strumenti che la sottendono.

Per l’autrice la natura, nella sua perfetta espressione di spazio-volume, è arte creata da un Altro. La sua costante citazione del mare, il regolare appuntamento mnemonico con i verdi e i blu acquei della sua riviera, diventa per lei un esempio di riproduzione dell’opera d’arte che già è stata realizzata dall’Altro.

Negli ultimi lavori del 1993, come «Senza titolo (tondo)» (fig. 20) – una tempesta con cielo stranamente assente dai colori plumbei che lo avrebbero caratterizzato precedentemente –, la pittrice risolve il quadro con colori chiari, mentre la violenza dell’impatto con il soggetto «naufrago» rimane sottilmente denunciata dalla linea rossa che spacca e colpisce lo sguardo. Questa volta i tracciati a pennello sono più netti, più sottili. Si evidenzia nell’esecuzione il getto libero, non più impostato, mentre traspare un certo senso di trascendenza, offerto appunto dagli spazi più aperti del quadro stesso.

Altro ancora è «Senza titolo (vascello)» (fig. 21), del 1993, ove dall’atmosfera di lutto si passa ad un sapore quasi di «redenzione». Importante è la scansione dei due piani di lettura. Si tratta di un quadro scevro di emozioni viscerali rispetto al precedente «Senza titolo (tondo)», 1993. È un dipinto sublimato nella sua tesi di ascesa verso un nuovo mondo e ammantato di tensione profetica grazie all’idea della vela che diventa canale verso il Cielo. In questo lavoro si evidenzia una fiamma allungata, forse atta a simboleggiare una sofferenza della materia, mentre l’ostacolo, il travaglio è offerto dalla presenza in primo piano degli scogli blu-neri. Nel secondo piano del quadro si sviluppa invece un’atmosfera diversa: questa volta si tratta di una meditazione ovattata. Siamo davanti ad un palesamento dell’idea dell’elemento spirituale.

Le architetture non dichiarate

Renzo Guasco ha offerto il suo omaggio critico al lavoro di Valeria Ciotti con un commento asciutto, ma molto puntuale: «Valeria ama le regole nella pittura come nella vita» scriveva. E così, desunti dal linguaggio di Paolo Uccello e Piero Della Francesca, emergono i tracciati architettonici di questa artista forte nel suo taglio di sistema (enunciato), abile nel codice, lesta nella trattazione del testo pittorico e impattante nella struttura dei piani di lettura.

Come già si intuiva nella produzione degli anni Settanta, il concetto di «spazio scenico» nel quadro, non è inteso meramente quale superficie che chiude o supporta esclusivamente una profondità aperta, bensì come un’antitesi calcolata tra profondità e superficie che diventa proporzione dei valori opposti data dal bilanciamento dei chiari-scuri del colore.

La pressoché assenza di supporto fotografico per la realizzazione dei soggetti femminili aggiunge un valore intimo-celebrativo al concetto muliebre, poiché elargisce quella familiarità legata al ricordo collettivo di ciò che una donna tradizionalmente conserva in sé: pace, riflessione interiore, solarità, sogno. La luce che avvolge i personaggi ha spesso la poesia di un’aurora illuminante o di un malinconico crepuscolo. Essa cessa di essere immobile e si riserva il lusso di diventare abbagliante.

Leggendo strutturalmente questa produzione pittorica si osserva che non c’è, se non in pochissimi casi, struttura dei piani prospettici «classici». La prospettiva architettonica è un codice che condensa lo spessore culturale che le appartiene. Nei quadri della Ciotti vi è un livello di espressione tra artificio e natura, un vano vasto e profondo dove si avventurano volumi, espressi dai contorni stessi che limitano le masse colorate, incastrandosi le une nelle altre come intarsi mosaicati.

Ciò che è interessante è che, pur nell’apparente dispersione/scansione dei soggetti in simbologie interiori o mistiche, c’è solidità e ancoraggio al terreno. Questo è ancor più evidente nei lavori degli anni Ottanta, ove reticolati e elementi curvilinei si alternano, fornendo i ritmi della partitura strutturale dei quadri e delle gouaches. Sono «blocchi», reti, non si sa bene se di protezione o di tortura interiore.

Si può dire che la libertà esecutiva si estrinseca sulla linea estetico-formale negli acquarelli mentre si palesa architettonico-emotivamente negli oli. Macchie, strisce, svolazzi e grovigli creano perfette simmetrie con un discorso che spesso ha connotazioni di trascendenza, senza però risultare docile o «perso» nei meandri di chissà quale ideologia o religione. Il senso mistico è avulso da codici incanalati, ed è più vicino ad un senso di amore universale verso l’Altro.

La Ciotti, attenta, libera e amante del rischio, è tutto meno che freddamente oggettiva riguardo l’«Altro». Conserva nella sua produzione pittorica un obiettivo costante verso la ricerca degli archetipi fondamentali dell’inconscio collettivo: la donna, il mare, il viaggio, il principio creatore. Nutre a riguardo una sana punta di inquietudine che traspare dalla sua ricognizione artistica. Riconosce la grandezza e il limite dell’umano che attinge al divino, riuscendo, grazie alla visione proposta in alcuni suoi lavori, a segnalarci dei messaggi. Un esempio è la serie di sette piccole tele denominate Cromo-semine realizzate nel 1975 di cui qui riproduciamo un esemplare (fig. 22).

Questi messaggi si codificano attraverso attente strutturazioni delle architetture sotterranee dei quadri, quelle appunto non dichiarate. Essenziali nei lavori della Ciotti sono non solo i rapporti tra i soggetti rappresentati, ma anche quelli che intercorrono architettonicamente tra le forme e i colori.

Le vele, spesso unite all’immagine di fiamma di candela, divengono pretesti per combinazioni di curve, ricche ed inebrianti, dove lo sfumato coesiste con il solido, con lo stabile. Nei suoi giardini acquatici e nei suoi fondi sabbiosi, il suo verde cobalto, l’ossido, il verde-azzurro, il blu creano un gioco di colori indipendente dalla forma dei soggetti rappresentati, offrendo quasi un effetto di sinestesia psichica.

Tale produzione artistica colpisce lo spettatore per l’estensione-dilatazione di una scansione architettonica giocata sul colore. Una sfida offerta a chi guarda. Un campo nel quale l’autrice impronta la sua idea di riflessione profonda sull’oggetto della sua pittura.

È dunque nella risoluzione delle architetture cromatiche che la pittrice realizza l’effetto catartico dei suoi quadri. La stessa visione permette già una trasfigurazione nell’umore dello spettatore. Persino nei nudi il risultato, grazie alle impostazioni dello schema strutturale dell’opera, non risulta né sensuale né lezioso. Sa di buono, antico, a volte di triste. Ma mai spudorato, atto a turbare o provocare.

Simboli e archetipi

Stupisce la misura e allo stesso tempo la solida proposta sulle produzioni del corpo al femminile, dove la figura viene isolata all’interno del sistema pittorico e offerta in moltissime enunciazioni, quasi atte a creare un sintagma pittorico.

È la nutrice, colei che offre e propone rifugio, che si consola in se stessa o offre un movimento consolatorio. La nudità della donna sta a significare uno stato d’essere generoso, naturale e maturo, che riporta all’archetipo della grande Madre. Una Eva intoccata e intoccabile.

I nudi, anche quelli che ritraggono soggetti giovani, quasi acerbi, ove il frutto genitale pare difeso dall’impostazione stessa della posa, iscrivono la salda funzione di un archetipo femminile atto a costituire una metonimia, ovvero a rappresentare sulla tela il contenuto per il contenitore. Questi corpi non suscitano seduzione o lubricità ma solidità materna.

Osserviamo a tal proposito la prospettiva offerta in Nudo disteso del 1970 (fig. 23). Qui coabitano tecnica e libertà di segno, in un’esecuzione dove le linee di lettura sono offerte dall’asse divisorio proposto dalla gamba piegata del soggetto. Il bilanciamento delle forme avviene grazie al rilievo sulla testa, che in questo quadro è in assenza di volto, offrendo allo spettatore un tempo muto, nutrito da verdi tiepidi e luce.

Nudo assolato, sempre del 1970 (fig. 24), risulta possente pur nell’espressione mancante del viso. Torna in questo quadro il mito della Grande Madre, evidenziato nel ricongiungimento delle masse mammellari a monoliti rassicuranti. Vi è qui uno studio approfondito delle tre geometrie sotterranee: cerchio, triangolo, quadrato. Lo studio iniziale sull’impostazione del quadro rende le forme armoniche tra loro. Il rosso brunito dell’incarnato della donna si vivacizza grazie alla luce che giunge lateralmente a sottolineare le mani.

In Nudo assopito, circa 1970 |Oli•038|, emerge l’ambientazione: una camera da letto con finestra dalla quale la luce entra, lambisce e colora il corpo dormiente femminile. Il viso è raramente definito nei tratti degli occhi, del naso e della bocca.

Si prosegue poi con «Nudo» (intimità), 1970 (fig. 25), studio meditativo sulla donna/femminilità appartenente agli stilemi dell’inconscio collettivo. Qui il corpo è riproposto in posizione raccolta e distesa su un fianco, con la schiena in evidenza, classica e moderna insieme, elegante nel suo incarnato verde e giallo, vitale nella sua morbida e apparente dormienza. In questi quadri è proprio la luce a porre l’accento sulle forme, ricreandole, offrendo loro spessore e volume, eleganza ed essenzialità.

Osserviamo «Nudo bianco», 1970 (fig. 26) ove gli ocra e le terre di siena sono lo sfondo ideale per un contrasto che non stride, tra un corpo pieno, imponente, capace di mantenere l’atmosfera di caldo abbandono sul lenzuolo bianco, cangiante. La scansione corporea qui è più scultorea, carnale, con i glutei a pieno campo.

Nudo solitario, 1970 |Oli•041|, è invece un nudo che si abbraccia, conteso tra due mondi e due dimensioni. L’elemento corporeo offre una simmetria data dall’osso tibiale che scandisce perfettamente il centro del lavoro e divide in due parti l’atmosfera cromatica e non colloquiale del soggetto. A sinistra lo sfondo lunare, impostato sui toni digradanti del blu e gli effetti di luci riflesse sull’acqua. A destra la solarità, la luce del giorno, l’irradiamento aureo.

Riposo al sole, 1971 |Oli•044|, colpisce per l’abbandono della posa, appena protetta da un contorno rosso capace di portare modernità di taglio pittorico. In Nudo orientale, sempre del 1971 (fig. 27), la testa della modella ricorda quella delle geishe. Poeticissimo l’incarnato pallido, bianco, irrisolto, non soluto (per l’autrice il colore è vita, movimento) dell’atmosfera giapponese che sviluppa una dignità ed eleganza fortissima sulla forma compositiva. La donna è coperta da un unico indumento, un alibi estetico atto a far risuonare su un’altra parte della tela la macchia scura dei suoi capelli. Lo sfondo, fiorito, si raccoglie intorno a lei come un gazebo, una sorta di elegante gabbia reticolata. Trionfa il colore rosso morbido, il colore dell’amore, il colore del tramonto. Una figura in riflessione, la cui postura, di spalle, crea uno spazio fisico e mentale che esclude gli estranei. Una metafora di un pezzo di vissuto dell’autrice?

Altra creatura che ricorda atmosfere struggenti è quella ritratta nel Nudo rosso, probabile autoritratto del 1972 |Oli•050| dove il capo è voltato indietro, evidenziando la linea sinuosa delle scapole e del seno e i fiori rossi e bombati tanto cari alla Ciotti. Si guardi poi, nel 1973, «Nudino rosso a strisce» |Oli•071| e «Nudino drappeggiato» |Oli•072|, entrambi ponenti l’enfasi sull’eleganza della gestualità discreta e appartata. Non finisce di stupire in questi nudi come il naturale riserbo caratteriale dell’autrice si trasferisca sulla tela a garantire squisite finezze d’effetto finale. Tutto ciò senza mai cadere nel volgare o nell’inelegante.

Altro soggetto nudo dipinto da Valeria Ciotti è «Riposo» del 1973 (fig. 28) dove la donna, collocata quest’unica volta con la testa in primo piano, appoggia il capo vicino ad un elemento colorato – una coperta, un paio di ali – e diffonde, dal corpo, un’energia fluida che gravita su gran parte del quadro, dipanandosi a raggi concentrici. La donna qui rappresentata possiede una grande aura luminosa, ricca di energia d’amore. Pertanto la resa iconografica di questo scudo eterico è simile ad un abbraccio caldo e accogliente. Nell’emanazione di fluidi concentrici che l’essere umano, in particolare la donna, sa diffondere, si alimenta l’energia promulgatrice di una vita nuova e l’inevitabilità del concepimento. Il compito, appunto, della Grande Madre.

Segue, nel 1975, Meditazione |Oli•079|, opera di grande formato, ove la donna si pone maestosa, come silente colonna portante di un pensiero recondito. L’effetto del messaggio visivo è di solidità e profondità meditativa, nonostante la gioiosità di contrasto data dai colori accesi.

In Nudo tra le acque, 1975 (fig. 30), la giocosità dei colori è accentuata dal senso di svago e leggerezza del soggetto femminile e dai segni spiraliformi che vi gravitano intorno. Nel Nudo seduto sul letto, 1975 (fig. 29), la bellezza appagata della donna appoggiata con un braccio al pomo in ferro battuto viene esaltata dal tracciato a fiori a sfondo muro che circonda garbatamente l’incarnato. Meno riuscito è Isa sul muretto, 1975 |Oli•082|, dove il corpo dell’amica della pittrice diventa pura supposizione di massa scultorea.

Con Leggiadria, 1975 |Oli•078|, l’autrice dipinge un nudo a passeggio che offre un modello edonistico dalle perfette forme adolescenziali. In questo lavoro si evidenzia la sensualità del corpo femminile idealizzata dall’universo maschile. Rimando, per un’analisi più precisa al capitolo successivo.

Dall’identità femminile al riconoscimento del maschile (il rimosso)

È proprio con Leggiadria del 1975 (fig. 31) che la Ciotti propone un lavoro pittorico edonistico delle forme prive di difetti e decadenza. In quest’opera si evidenzia il potenziale, la sensualità che l’occhio maschile pone sul corpo «oggetto del desiderio». Un rimando ad un universo maschile rimosso ma presente a tratti nella sua opera. In questo quadro la realizzazione carnale del nudo di tre quarti ritorna come mood del pathos presente nelle opere dedicate ai Pianeti, in particolare, il sole. Gravita il senso della potenza, della primordialità del sogno maschile. Nel quadro si rappresenta un nudo bello, molto elegante, con il punto di equilibrio dato dalla suddivisione dello spazio sulla tela. I capelli e la testa di questa donna rievocano atmosfere immerse nel verde, svanendo quasi nell’atmosfera che non sta né dietro né sopra, ma dentro, emergendone a tratti. Mani e testa sfumano nel colore, quasi fossero la realizzazione dell’atmosfera che le ha generate. Il sole va sulle spalle accentuandone le curve morbide. La luce stessa scolpisce le forme.

Un secondo esempio di come l’elemento mascolino si inframmezza nell’immaginifico della Ciotti è il nudo che si abbraccia, a mo’ di «folletto» nel Pierrot del 1971 (fig. 32) dove la figura androgina si chiude intorno a un abbraccio circolare, che passa attraverso le mani poste sulla caviglia, creando un’apertura-chiusura insieme, a mo’ di una marionetta raccolta su se stessa. L’elemento figurativo corporeo offre una simmetria data dall’osso tibiale che scandisce il centro del lavoro. Scompare la visione dei seni, scompare qualsiasi citazione di femminilità: è un corpo asessuato, privo di connotazioni di genere, dal quale si dipanano matrici di colori diversi: i verdi, azzurri, cinerei, contornati da un rosso che vanta l’idea di fiori e di forme stilizzate musicalmente. Lo sfondo a questo soggetto ambiguo offre un forte scarto d’impostazione con l’inserimento del bianco ai suoi piedi.

Un sapore «mascolino» è individuabile nei cicli dedicati ai soli, per es. Sole egizio 2 del 1975 |Oli•098|, e ai pianeti. Interessante pertanto l’esecuzione così stringata ed essenziale di Vigneti sotto la neve a Ramàts, 1973 |Oli•058| un quadro ambientato in Val di Susa, che palesa il lavoro dell’uomo sulla terra e pare una sfida all’immobilità. Il quadro nasce da una fotografia scattata in bianco e nero. L’autrice ha asservito meno l’occhio della mente e ha deciso di esasperare i contrasti bianchi, associando il lavoro dell’uomo alle situazioni statiche, cristallizzanti, come il ghiaccio, la neve.

Del 1992 è «Spartacus n 2» |Oli•150| ancora con un palesamento del maschile rimosso: una matrice astratta-informale con grande utilizzo dei bianchi e dei neri. Molto spatolato. Si tratta di un macchinario meccanico, forse un aratro, che l’autrice sfida a render iconograficamente attraente. In quest’opera si può vedere come la pittrice renda essenziale la forma, rendendola interessante e contestualizzandola con citazioni di case, fabbriche o comunque elementi costruiti dal genere homo.

Significati e significanti: la monade ovvero letteratura al singolare

Sin dai primi lavori, databili intorno al 1966, si percepisce una predilezione verso la concezione «monadica» e ciclica, ovvero unica e ripetitiva, dei singoli elementi che costituiscono il quadro. Si tratta di un «codice analogico» ovvero di un linguaggio costantemente imperniato verso un soggetto singolo, monotematico e raccolto in se stesso: la donna, l’albero, l’angelo, la vela.

Esso viene riproposto in differenti «abiti» e «atmosfere», esprimendo così il concetto di variabilità pur nell’unicità solitaria che abbraccia la vita. Si osservi già agli esordi del 1966 come in «Autoritratto» |Oli•008| o in Natura morta con pere |Oli•007| (tav. II). Si rivela chiaramente l’affetto e l’attenzione per la forma plastica tipica di un’artista che proviene dall’esperienza della scultura, dall’interazione creativa con la materia. Quest’attenzione per l’unicità del soggetto, derivante appunto dall’amore per la forma, sviluppa nell’autrice una singolare potenza dei soggetti, vissuti sempre come protagonisti distinti sulla tela e mai come elementi di supporto o decorativi.

L’autenticità e l’individualità definiscono i valori etici primari della pittrice, che cerca l’Essenza illuminante in ogni singolo soggetto rappresentato. I soggetti sono solitari, «monologanti». Monadi appunto. Mai in coppia e, nel caso di paesaggi, mai popolati da persone, con l’unica eccezione di Anima mundi. Se il protagonista della ricerca pittorica è un Albero, per la Ciotti lo è e sarà in tutte le sue possibili declinazioni: rigoglioso, fiorito, simbolico, spoglio, bruciato e ridotto a mero relitto portato via dal mare. E così pure per un Pianeta o un Sole in tutte le sue fulgide mirabolanze di riflessi caleidoscopici. Altrettanto avviene con corpo femminile, che è sempre nudo.

Se il soggetto umano rimane unico protagonista nella tela, con il viso o con il corpo (solitamente Valeria sceglie o l’uno o l’altro) è privo di interlocutori altri che non siano il proprio Sé. E proprio per questo tutti i suoi Soli, Foglie, Corpi, Alberi, Case, Rocce e così via, sono un inno allo spirito primigenio che anima la Natura: si tratta appunto dell’Anima mundi di cui il quadro omonimo del 1968 (fig. 33) è correlativo oggettivo.

Non c’è promiscuità né contaminazione nell’argomentazione pittorica trattata. Tutto pare armonizzato da una focalizzazione precisa e allo stesso tempo da una messa in opera di tratteggio di soggetti colti nella loro dimensione più personale. Nelle gouaches e ritratti l’artista sa trasmettere oltremodo, quasi far risuonare, l’essenza della persona. Basti notare la personalità pungente della cugina Luigina Ciotti (|Acq•ritratti 03|), l’espressione di interrogazione costante in Agnese Cattori (|Acq•ritratti 01|), un’altra cugina oppure ancora l’affetto tratteggiato per Mario Gramaglia |Oli•014|, suo collega di pittura e amico.

È del 1985 «Albero» |Oli•132|, la rappresentazione di un larice, caratterizzata da una forte intrusione di linee informali sulla tela che la tagliano verticalmente con grandi sprazzi di blu e rosso. Il rosso sovrasta da dietro, penetra e raggiunge l’osservatore, emergendo dal verde del fogliame. Grandi macchie di blu tutt’intorno completano l’effetto di sperimentazione/transizione.

Si ritorna con la memoria al 1973, quando si affronta la tematica del sole che da dietro l’albero trancia i rami ed esplode. È una macchia a tre quarti del quadro in altezza, riempie e brucia il verde sottostante; ci sono campiture di colore fauve, e un utilizzo della luce con matrice divisionista. L’irraggiamento dall’albero cade sui campi, quasi i solchi dell’aratro sul paesaggio, e diventa irradiamento energetico in «L’albero», 1973 (fig. 34). È la vita che chiama. Il cielo, dai toni rosati e gialli, rispecchia specularmente il verde azzurro del terreno (inversione).

Angeli e demoni, sole e luna, acqua e fuoco

In questa concezione «appartata» dei suoi soggetti la Ciotti stimola il lettore a cercare di svelare il segreto del suo ritiro interiore. Altro talento che l’autrice segue (e che Gauguin le ha virtualmente trasmesso) è quello di non dipingere mai troppo dal vero. Eccola allora avvolgere le forme con tratto morbido, circolare, sintetico, riducendo al minimo il modellato di reminiscenza scultorea. La pittrice esalta e comprende l’interdipendenza tra l’umano e il divino, sviluppando iconograficamente il pensiero collettivo a riguardo. I lavori «figurativi» sugli angeli sovente risultano pari a trasposizioni che citano una parte del tutto, esempio le loro ali, altre volte la loro significanza, attraverso le emanazioni di luce che la Ciotti tratteggia come creature appartenenti ad un mondo «Altro».

Questa operazione pittorica, che nel linguaggio retorico viene definita «sineddoche», le offre la possibilità di rappresentare con la luce (o le ali) gli angeli e con ciò che sembra «bruciato» (relitti, alberi spogli) gli angeli «caduti», ovvero i demoni. Con il sole l’artista crea un referente all’idea di potenza onnipresente.

Questi sono soggetti concepiti con intuizione pura, irradiata, nutrita, respirata dallo stesso sole che tante volte ricorre nelle sue tele. Un sole che spacca, si intride di quella stessa luce di cui è fatto, ed esplode. Ecco che allora scosse di arancio roteano nei blu e creano uno spettro di rifrazione infinita del colore-energia, un’apertura alla nuova visione. Una sorta di estasi cromatica. Le opere si susseguono nella loro produzione in un fremito sempre più vicino al canto esperito in pittura dell’Anima.

Tale rapporto viene frammentato dagli scambi cromatici, diventa dunque sfida all’occhio che osa andare oltre. Con tale consapevolezza si può guardare il suo «Autoritratto» del 1966 |Oli•008| con occhi nuovi, soffermandosi sul suo sguardo che penetra il vissuto di chi l’osserva.

Ma è il tema dell’angelo, già definito essere zoomorfo (vedasi Angelo-uccello, 1968 |Oli•017| oppure San Matteo del 1969 |Oli•028|), che sviluppa il raccordo tra significato e significante, ovvero tra palesamento del soggetto puro (uccello) e simbolo interiore (angelo) che sostiene la sua ascesa mistica con il dispiegamento di ali. Questa è l’arte del rappresentare l’«illuminazione». A questo proposito si veda, del 1968, un altro Angelo (fig. 35), che con la sua luce avvolge per 3/4 il quadro. Vi è sacralità, quasi fossimo immersi in una ritualistica estrema, avvolgente, di rosso e di altri colori intensi. Un abbacinamento offerto dalla luce stessa. Pur nel riparo delle forme è un quadro che esplode di energia.

L’Angelo del 1968 nasce come creatura che potrebbe appartenere al bestiario fantastico di Borges. È infatti angelo-uccello, diurno o notturno, capace proprio come Caronte di creare un effetto di transizione dal mondo dei vivi a quello dei morti. Con San Matteo, 1969 (fig. 36), siamo di fronte ad un’opera decisamente compiuta, elegante e trasudante leggerezza. L’impianto della struttura compositiva è frutto della sovrapposizione volumetrica di ali, punto di incontro della gestualità più libera e felice dell’artista con l’equilibrio sonoro dei campi cromatici. In questo scenario si intravedono ali di insetti frullanti, ali spiegate e assai più ferme di uccelli, e, ancora una volta, su tutto, straordinari, perché timidi e nascosti, voli e curve di danza che liberano spazi al colore sovente trattato in sovraesposizione. Toglie la pelle all’uovo, Valeria Ciotti. Attraverso la de-costruzione nasce la sua, e la nostra, consapevolezza. Si affiora alla serenità dopo lo sfondamento degli schemi pre-costituiti.

Un’opera che può offrire un conflitto interpretativo agli occhi di chi la guarda. Il soggetto è un angelo buono o un angelo cattivo? È solare o è meglio pensarlo creatura notturna? Vive di acqua o di fuoco?

Non ci è dato sapere, perché la Ciotti non ci ha lasciato tracce se non il titolo «angelo» (peraltro anche il nome di battesimo del fratello, che oggi fa rivivere i suoi lavori all’interno di questo catalogo). Meglio così. Le due facce della stessa medaglia convivono spesso nelle opere dell’artista.

Mille proiezioni, mille dubbi, mille ipotesi sul senso dell’acqua e del fuoco, del sole e della luna, degli angeli o dei demoni. Sono questi gli stimoli che han fatto parte di questo percorso. Ipotesi, percorsi della mente, dell’anima, della vita stessa. Pezzi mancanti che non ho cercato a tutti i costi di ricostruire insieme in un disegno logico e conclusivo, quanto piuttosto di avvicendare in un’unità interpretativa pur nell’apparente frastagliamento delle tematiche affrontate. Un modo, oserei dire, in cui l’anima portante di queste opere può rendere giustizia a se stessa.


Brani di un esame critico

| di Angelo Ciotti |

Il critico Francesco Lodola amava le opere di Valeria. La loro reciproca conoscenza risale al 1988 allorché, su incarico di Anna Virando, egli redasse il testo di presentazione della mostra degli acquarelli intitolati «Lune» che si tenne presso la «Galleria Studio Laboratorio» nell’ottobre di quell’anno.

Quando, incontratolo casualmente nella stessa Galleria, venne a sapere che desideravo preparare un catalogo e una mostra retrospettiva di Valeria, si offerse di collaborare al lavoro, anche con incarichi umili, come quello ad esempio di preparare le cornici, pur di avvicinarsi nuovamente a quel mondo figurativo che lo aveva affascinato. In effetti, con mia gratitudine, si assunse l’onere di occuparsi degli oli, che iniziò ad esaminare ad uno ad uno annotando sul suo computer le immediate impressioni e le osservazioni che di getto elaborava su ciascuno.

Purtroppo nel momento in cui, dalle opere che avevo in casa, si doveva passare all’esame di quelle presso i singoli collezionisti, Francesco, per impegni inerenti a una sua nuova impresa lavorativa, non poté più continuare ad assolvere il suo compito.

Rimangono però quelle sue fresche annotazioni risalenti al 1998-1999 che, sebbene in maniera frammentaria, ricoprono tutto l’arco produttivo ad olio di Valeria, dal 1966 al 1994, e che vengono qui trascritte pressoché integralmente, ordinate secondo il regesto cronologico delle opere.

Sono osservazioni acute, penetranti, letteralmente ineccepibili, che del quadro individuano o tentano di decifrare il soggetto, descrivono la sua struttura e forma, i colori, scrutando l’animo che aveva generato l’opera. Nell’insieme sono circa un centinaio i quadri esaminati e la loro escursione cronologica segna chiaramente l’evolversi della pittura di Valeria, delle sue tappe e conquiste, delle sue esigenze, dell’afflato scultoreo di cui l’intera produzione ancora risente.

L’insieme è per me anche un insegnamento di come si osserva stilisticamente un quadro, di quanto si può scoprire in esso e della sensibilità di chi l’ha prodotto. Pure per questo ritengo meritevole e opportuno che questo apporto critico venga qui esposto, tanto più che è in qualche modo complementare e addizionale a quello organico della Mantelli, di carattere più psicoanalitico. La strutturazione del presente catalogo in due volumi può agevolare il lettore nell’esame della raccolta lodoliana, offrendogli l’opportunità di osservare ogni opera enumerata contemporaneamente alla sua rappresentazione iconografica del secondo volume.


N.B. In parentesi sono riportate le ipotesi di titolazione indicate dal critico al momento dell’esame del regesto allora in essere.