Come la ricordiamo

Pier Luigi Ghisleni

L’ultima volta che incontrammo Valeria fu in montagna, non molto tempo prima – poche settimane – che si venisse a sapere che era ricomparso quel feroce male che l’avrebbe poi uccisa. Apparentemente nulla lasciava trasparire ch’ella si sapesse nuovamente malata: o non lo sospettava, o mascherava molto bene la sua infelice condizione. Era serena, sorridente, anche se un po’ controllata, come del resto sempre. Nel gruppetto di amici e di amiche, i discorsi caddero sulle solite banalità, scambi di notizie, saluti. Quell’incontro fu, tutto sommato, breve: forse – pensammo – l’avremmo rivista dopo pochi giorni. Non fu così; si seppe poi la realtà, si seppe del lungo, atroce travaglio suo, si seppe dell’angoscia e dell’abbattimento spirituale del fratello che l’assistette sino alla fine.

Parecchi mesi dopo la morte di Valeria, cominciò a circolare la notizia, tenue, pacata, consolatoria, che Angelo aveva il proposito di realizzare questa raccolta di tutte le opere, per ricordarla e per farla ricordare anche al di là del tempo che a ciascuno dei sopravvissuti sarebbe rimasto, e per lasciare traccia di lei anche a coloro che personalmente non l’avevano conosciuta.

Palesava, Valeria Ciotti, accanto alla non dichiarata ma pur riconoscibile soavità dei sentimenti, una più evidente rigidezza di comportamento, una interiore inflessibilità e si capiva come questa fosse legata e forse imposta dalla volontà di dedicarsi senza condizioni al suo destino di artista: la capacità di dolcezza spirituale la esprimeva nelle opere. Molto giovane sentì di essere vocata per l’arte e vi si dedicò anche contro gli impedimenti e le situazioni contingenti che avrebbe poi trovato sul cammino. Il primo grande impulso fu per la scultura; vennero fuori dalle sue mani strutture subito giudicate al di sopra delle consuete possibilità. A questa prima chiamata avrebbe voluto rimanere fedele; non fu così. Chiunque altro avrebbe ceduto al travolgente destino, ma non lei; subì un richiamo inderogabile, un impulso invincibile che le impose di rimanere incatenata all’arte, una sorta di obbligatoria dedizione. Vennero, di conseguenza, e per fortuna, i suoi oli a volte dolci, a volte forti, sempre evocativi; i suoi acquarelli luminosi, in certi casi artifici pittorici anamorfici, per cui le figure diventano comprensibili soltanto se osservate da un preciso ed unico punto.

Peraltro il suo modo di esprimersi tecnicamente è fermo, sicuro, unico, atonale rispetto a invitanti riferimenti e ad ogni possibile accostamento estraneo, anche se si avvertono nobili matrici, denunciate giorno per giorno, anno per anno, come sussurri che si rinnovano nell’amore. Proprio in questo rigore aleggiante sul mistero sta collocata la fondamentale qualità dell’arte di Valeria Ciotti, che così vinse la sua scommessa con la vita: anche se, forse, non fece in tempo a saperlo.

Le sue fantasmagorie di colori, ma soprattutto le incisioni, nelle quali dissolse il suo sapere, la sua padronanza dei mezzi, la sua introspezione (si veda in particolare «Favola») consentono di ammirare certe atmosfere assorbenti e di godere di difficilmente esprimibili momenti di mistero. Quel mistero che ci conquista e sorprende e che ce la fa ricordare pur se le sfaccettature rimangono qua e là insondabili e pur infinitamente riposanti.